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Libri di Lore "dimenticati"

Discussione in 'The Elder Scrolls V: Skyrim' iniziata da Varil, 26 Novembre 2018.

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  1. Vampirismo

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  2. Lord Vivec

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  4. Cosmologia, Creazione

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  1. Varil

    Varil Galactic Guy

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    Un gioco per cena

    di
    Una spia anonima


    Prefazione dell'editore:

    La vera storia che si cela dietro questa lettera è quasi tanto interessante e oscura quanto la leggenda che narra. La lettera originale per il misterioso Dhaunayne venne copiata e iniziò a circolare nelle Terre di Cenere di Vvardenfell alcuni mesi fa. Col tempo, una sua copia giunse nel cuore del continente e al palazzo del Principe Helseth della casa Hlaalu, fuori da Almalexia. Sebbene il lettore potrebbe concludere, dopo aver letto questa missiva, che il principe si sia infuriato notevolmente per quello scritto che metteva in dubbio la sua nobiltà con estrema perfidia, accadde esattamente il contrario. Il principe e sua madre, la Regina Barenziah, la fecero stampare in privato in copie rilegate e la spedirono nelle biblioteche e nelle librerie di tutta Morrowind.

    Vale la pena riferire, a puro titolo informativo, che il principe e la regina non hanno mai dichiarato ufficialmente se la lettera sia un'opera di pura fantasia o se sia basata su di una vicenda reale. La casa Dres ha pubblicamente censurato lo scritto e in verità nessuno di nome Dhaunayne, nonostante le indicazioni presenti nella lettera, è mai stato associato alla casa. Lasciamo al lettore il compito d'interpretare la lettera come meglio crede.

    - Nerris Gan, editore

    [pagebreak]
    Oscuro signore Dhaunayne,

    mi avete chiesto una descrizione particolareggiata della mia esperienza della scorsa notte e le ragioni del mio appello alla casa Dres per avere un altro incarico. Spero di avervi servito adeguatamente nella mia funzione di informatore alla corte del Principee Helseth, un uomo che, come ho dichiarato in molte mie precedenti relazioni, potrebbe insegnare perfino a Molag Bal stesso l'arte del complotto. Come sapete, ho impiegato ormai quasi un anno per riuscire a entrare nella sua ristretta cerchia di consiglieri. Quando giunse a Morrowind per la prima volta, aveva bisogno di amici e si avvicinò con entusiasmo a me e a pochi altri. Nondimeno, si mostrò riluttante a confidare in ciascuno di noi, cosa forse non sorprendente, data la sua incerta posizione nella società di Morrowind.

    Affinché vostra empietà rammenti gli antefatti, il principe è il primogenito di Barenziah, che fu un tempo regina di Morrowind e in seguito regina di Wayrest, un regno della provincia di High Rock. Alla morte di suo marito re Eadwyre, il patrigno del principe Helseth, vi fu una lotta per il potere tra il principe e la figlia di Eadwyre, la Principessa Elysana. Sebbene i particolari di ciò che è trapelato siano incompleti, è evidente che Elysana ne uscì vittoriosa e divenne regina, condannando all'esilio Helseth e Barenziah. L'unica altra figlia di Barenziah, Morgiah, aveva già lasciato la corte per sposarsi e diventare regina del regno di Firsthold nell'Isola di Summerset.

    Barenziah e Helseth attraversarono il continente per far rientro a Morrowind soltanto lo scorso anno. Furono accolti calorosamente dallo zio di Barenziah, il nostro attuale re, Athyn Llethan di casa Hlaalu, che era salito al trono quando Barenziah abdicò oltre quarant'anni or sono. Barenziah chiarì che non aveva alcun proposito di reclamare il trono, ma soltanto di ritirarsi nelle sue proprietà di famiglia. Helseth, come sapete, si è trattenuto presso la corte reale e molte delle voci di corridoio suggeriscono che, avendo perduto il trono di Wayrest, non intenda assolutamente perdere anche quello di Morrowind alla morte di Llethan.

    Ho tenuto vostra empietà informata in merito ai movimenti del principe, ai suoi incontri e alle sue trame, oltre che ai nomi e alla personalità degli altri suoi consiglieri. Come certo rammenterete, ho spesso ritenuto di non essere l'unica spia alla corte di Helseth. Vi ho detto in precedenza che un particolare consigliere dunmer di Helseth assomigliava a un personaggio che avevo visto in compagnia di Tholer Saryoni, l'arcicanonico del Tempio del Tribunale. Di un'altra, una giovane donna nord, sono state appurate le visite presso la fortezza imperiale a Balmora. Naturalmente, nei loro casi, potevano anche agire per conto dello stesso Helseth, ma non potrei esserne certo. Avevo iniziato a considerare me stesso paranoico, proprio come il principe, quando mi ritrovai a dubitare della sincera lealtà di Burgess, il ciambellano del principe, un bretone che era stato al suo servizio fin dai suoi giorni presso la corte di Wayrest.

    Questo è l'antefatto di quella notte, la scorsa notte.

    Ieri mattina, ho ricevuto un secco invito a cena con il principe. Basandomi soltanto sulla mia maniacale diffidenza, ho inviato uno dei miei servitori, valido e leale alla casa Dres, a sorvegliare il palazzo per riferirmi di qualunque evento insolito. Appena prima di cena, è ritornato e mi ha raccontato ciò di cui era stato testimone.

    Un uomo avvolto in un logoro mantello aveva avuto accesso al palazzo e si era trattenuto al suo interno per un po' di tempo. Quando se ne andò, il mio servitore riconobbe il suo volto sotto al mantello... Si trattava di un noto alchimista con un'infame reputazione, ritenuto un importante fornitore di veleni esotici. Da acuto osservatore qual era, il mio domestico aveva anche notato che l'alchimista era entrato a palazzo odorando di grano maligno, verdamara e qualcos'altro di dolciastro e ignoto. Quando se ne andò, non aveva più alcun odore.

    Era giunto alla mia stessa conclusione. Il principe si era procurato ingredienti per preparare un veleno. Il verdamara da solo è letale, se ingerito crudo, ma gli altri ingredienti suggerivano qualcosa di assai più pesante. Come vostra empietà certamente potrà immaginare, quella sera mi recai alla cena pronto a ogni evenienza.

    Gli altri consiglieri del Principe Helseth erano presenti e notai che tutti apparivano leggermente preoccupati. Ovviamente, immaginai di trovarmi in un covo di spie e che tutti fossero a conoscenza del misterioso incontro del principe. Proprio come era probabile che solo alcuni sapessero della visita dell'alchimista, mentre altri fossero semplicemente ansiosi per la natura dell'invito, e altri ancora avessero solo involontariamente assunto l'atteggiamento inquieto dei loro colleghi consiglieri meglio informati.

    Il principe, tuttavia, era ben disposto e presto ogni ospite si sentì rilassato e a proprio agio. Alle nove, fummo tutti accompagnati nella sala da pranzo dove il banchetto era stato allestito. E che banchetto! Gorapples addolciti con miele, deliziosi stufati, arrosti in varie salse al sangue e ogni sorta di pesce e volatile preparati con perizia e ostentazione. Boccali in oro e cristallo colmi di vino, flin, shein e mazte erano già pronti ai nostri posti per essere degustati con la portata appropriata. Per quanto stuzzicanti fossero gli aromi, mi passò per la mente che in un tale miscuglio di spezie e di profumi un veleno discreto non sarebbe stato individuabile.

    Per l'intera durata del pranzo, continuai a dare l'impressione di mangiare con gusto le pietanze e di bere il liquore, ma agii furtivamente e non ingerii nulla. Alla fine, i piatti e il cibo furono portati via da tavola e una zuppiera di brodo aromatizzato venne posta al centro del banchetto. Il servitore che l'aveva portata si ritirò, chiudendo la porta del salone dietro di sé.

    "Ha un profumo divino, mio principe", disse la marchesa Kolgar, la donna nord, "ma non potrei proprio mangiare altro".

    "Vostra altezza", soggiunsi ostentando un tono affabile e una leggera ubriachezza. "Sapete che ognuno a questo tavolo morirebbe volentieri per farvi salire al trono di Morrowind, ma è davvero necessario farci rimpinzare fino al decesso?".

    Gli altri invitati al tavolo ne convennero con mormorii di apprezzamento. Il Principe Helseth sorrise. Giuro su Vaernima il Donatore, mio oscuro signore, che persino voi non potreste aver mai visto un sorriso come quello.

    "Ironiche parole. Vedete, oggi mi ha fatto visita un alchimista, come alcuni di voi senza dubbio sanno. Mi ha mostrato come preparare un veleno portentoso e il suo antidoto. Una pozione assai efficace, eccellente per i miei scopi. Nessun incantesimo di Recupero potrà esservi d'aiuto una volta che l'avrete ingerita. Soltanto l'antidoto nella zuppiera vi salverà da morte certa. E che morte, da quel che ho sentito. Sono ansioso di vedere se gli effetti sono quelli assicurati dall'alchimista. Sarebbe orrendamente penoso per chi ne è vittima, ma piuttosto divertente".

    Nessuno proferì parola. Potevo sentire il mio cuore battermi forte in petto.

    "Vostra altezza", disse Allarat, il dunmer di cui sospettavo l'alleanza con il tempio, "avete forse avvelenato qualcuno a questo tavolo?".

    "Siete molto scaltro, Allarat", rispose il Principe Helseth guardando intorno al tavolo e osservando attentamente ciascuno dei suoi consiglieri. "Non mi stupisce che tenga in gran conto il vostro parere. E in verità stimo tutti in questa stanza. Sarebbe forse più facile per me dire chi non ho avvelenato. Non ho avvelenato nessuno che serva un solo padrone, nessuno la cui lealtà nei miei confronti sia sincera. Non ho avvelenato nessuno che voglia realmente vedere re Helseth sul trono di Morrowind. Non ho avvelenato nessuno che non sia una spia al servizio dell'Impero, del tempio, delle case Telvanni, Redoran, Indoril o Dres".

    Vostra empietà, a queste ultime parole puntò lo sguardo su di me. Lo so con certezza. Il mio volto è allenato a non tradire i miei pensieri, ma pensai immediatamente a ogni incontro segreto che avevo avuto, a ogni messaggio in codice che avevo inviato a voi o alla casa, mio oscuro signore. Cosa poteva sapere? Cosa poteva, nella sua ignoranza, sospettare?

    Sentii il mio cuore battere ancora più velocemente. Era la paura o l'effetto del veleno? Non riuscivo a parlare, certo che la mia voce avrebbe tradito la mia calma apparente.

    "Coloro a me fedeli che desiderano nuocere ai miei nemici, si domanderanno come posso essere certo che il veleno sia stato ingerito. Non è forse possibile che il convitato conscio della propria colpa, o oserei dire, i convitati fossero sospettosi e stasera abbiano semplicemente finto di mangiare e di bere? Senza dubbio. Ma persino i più abili fra i simulatori avrebbero pur dovuto sollevare un bicchiere alle proprie labbra e portare forchette o cucchiai vuoti alle loro bocche per recitare la commedia. Il cibo, capite, non era affatto avvelenato. Lo erano invece i calici e le posate. Pur non prendendo parte al banchetto, a causa della vostra paura, siete stati comunque avvelenati e avete tristemente perduto un arrosto eccellente".

    Il sudore mi imperlava il viso e mi voltai perché il principe non vedesse. I miei colleghi consiglieri, tutti quanti, erano pietrificati ai loro posti. Dalla marchesa Kolgar, sbiancata dalla paura, a Kema Inebbe, che tremava visibilmente, ad Allarat, con le sopracciglia corrucciate per l'ira, a Burgess, con lo sguardo impietrito come una statua.

    Non potei fare a meno di pensare, poteva l'intero consiglio del principe essere costituito da nient'altro che spie? C'era qualcuno al tavolo che poteva dirsi leale? E poi pensai, e se io stesso non fossi una spia, come potevo esser certo che Helseth lo sapesse? Nessuno meglio dei suoi consiglieri conosceva la profondità della paranoia del principe e l'assoluta inesorabilità della sua ambizione. Anche se non fossi una spia della casa Dres, potrei forse dirmi salvo? Poteva un consigliere leale essere avvelenato a causa di un giudizio errato non altrettanto innocente?

    Gli altri dovevano avere gli stessi miei pensieri, leali e spie in ugual misura.

    Mentre la mia mente turbinava, riuscii a sentire la voce del principe che si rivolgeva a tutti i presenti: "Il veleno agisce in fretta. Se non assumerete l'antidoto entro un minuto, la morte farà capolino a questo tavolo".

    Non riuscivo a comprendere se fossi stato avvelenato o meno. Lo stomaco mi faceva male, ma poteva essere stata la conseguenza di aver presenziato a un sontuoso banchetto senza prendervi parte. Il cuore mi batteva forte nel petto e le mie labbra avevano un sapore acre e amaro simile alla radice di Trama. Di nuovo, era quella paura o l'effetto del veleno?

    "Queste sono le ultime parole che sentirete se non siete stati leali nei miei confronti", disse il Principe Helseth sorridendo ancora dannatamente mentre osservava i suoi consiglieri agitarsi ai loro posti. "Assumete l'antidoto e vivrete".

    Potevo credergli? Pensai a tutto ciò che sapevo del principe e del suo carattere. Avrebbe ucciso chi avesse confessato di essere una spia alla sua corte o avrebbe piuttosto rispedito lo sconfitto dai suoi padroni? Il principe era spietato, ma entrambe le possibilità rientravano nel suo modo di fare. Certamente la drammatizzazione esagerata dell'intera cena voleva essere una rappresentazione per incutere paura. Cosa avrebbero detto i miei antenati se mi fossi unito a loro dopo essermi seduto a una tavola, morendo infine avvelenato? Cosa avrebbero detto se invece avessi preso l'antidoto, confessando la mia devozione verso di voi e la casa Dres, per poi esser giustiziato in modo sommario? E lo confesso, ho perfino pensato a cosa mi avreste fatto voi anche dopo la mia morte.

    Ero così stordito e concentrato nei miei pensieri che non vidi Burgess balzare sul posto. Fui soltanto improvvisamente consapevole che teneva la zuppiera fra le mani bevendone avidamente il contenuto. C'erano guardie tutto intorno, sebbene non le avessi notate entrare.

    "Burgess", disse il Principe Helseth sorridendo ancora. "Avete trascorso del tempo a Ghostgate. Casa Redoran?".

    "Non lo sapevate?", Burgess rise stizzosamente. "Nessuna casa. Mi riferisco alla vostra sorellastra, la regina di Wayrest. Sono sempre stato al suo servizio. Per Akatosh, mi avete avvelenato perché pensavate che lavorassi per qualche dannato elfo scuro?".

    "Avete ragione per metà", disse il principe. "Non immaginavo per chi lavoraste e neanche che foste una spia. Ma errate credendo che vi abbia avvelenato. Vi siete avvelenato da solo bevendo dalla zuppiera".

    Vostra empietà, non avete bisogno di sentire come morì Burgess. So che ne avete viste molte durante gli innumerevoli anni della vostra esistenza, ma in verità non avete bisogno di saperlo. Vorrei poter cancellare il ricordo della sua agonia dalla mia mente.

    Il consiglio venne sciolto poco dopo. Non so se il Principe Helseth sappia o sospetti che anch'io sia una spia. Non so quanti altri quella notte, la scorsa notte, erano così vicini come me a bere dalla zuppiera prima che lo facesse Burgess. Sono comunque certo che, anche se il principe non sospetta di me adesso, lo farà in seguito. Non posso vincere con lui nei giochi che conobbe a fondo, molto tempo fa, presso la corte di Wayrest, e supplico vostra empietà, il mio oscuro signore Dhaunayne di far uso della vostra influenza presso la casa Dres per esonerare il vostro leale servitore da questo incarico.

    Nota dell'editore:
    Naturalmente la firma dell'anonimo scrittore non è presente su alcuna ristampa della lettera ottenuta dall'originale.
     
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  2. Varil

    Varil Galactic Guy

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    La torta e il diamante


    di
    Athyn Muendil

    Ero alla locanda Il Ratto e il Boccale, un locale per stranieri ad Ald'ruhn, e stavo parlando con i miei compagni quando vidi la donna per la prima volta. Ora, le donne bretoni sono abbastanza comuni a Il Ratto e il Boccale. Come uccelli migratori, erano solite allontanarsi dai loro picchi di High Rock. Le vecchie bretoni, tuttavia, non sono così girovaghe e la vecchia raggrinzita attirò su di sé l'attenzione, girando per la stanza e parlando con tutti.
    Nimloth e Oediad erano al solito posto, bevendo la solita roba. Oediad stava mostrando un premio che aveva ottenuto in qualche modo illecito: un enorme diamante, grande come la mano di un bambino e puro come l'acqua sorgiva. Lo stavo ammirando quando sentii alle mie spalle lo scricchiolio di vecchie ossa.

    "Buongiorno, amici", disse la vecchia. "Il mio nome è Abelle Chirditte e ho bisogno di un aiuto finanziario per facilitare il mio trasporto ad Ald Redaynia."

    "Se vuoi la carità devi andare al tempio", disse seccamente Nimloth.

    "Non voglio la carità", disse Abelle. "Mi interesserebbe uno scambio di servizi."

    "Non dire fesserie, vecchia", rise Oediad.

    "Hai detto che il tuo nome è Abelle Chirditte?" chiesi. "Sei imparentata con Abelle Chriditte, l'alchimista di High Rock?"

    "Molto imparentata", disse con un risolino. "Siamo la stessa persona. Forse posso prepararvi una pozione in cambio d'oro? Ho notato che possedete un diamante molto bello. Le proprietà magiche dei diamanti sono illimitate."

    "Mi spiace, vecchia, non lo cedo in cambio di prestazioni magiche. È stato già abbastanza problematico rubarlo", rispose Oediad. "Ho un ricettatore che lo pagherà fior di monete."

    "Ma il tuo ricettatore esigerà una certa percentuale, o sbaglio? Cosa ne pensi se ti dessi in cambio una pozione di invisibilità? Per quel diamante, potresti ottenere dei mezzi per rubare molto di più. Mi pare proprio uno scambio equo di servizi."

    "Sarà, ma non ho oro da darti", disse Oediad.

    "Prenderò ciò che resta del diamante dopo che avrò fatto la pozione" disse Abelle. "Portandolo alla Gilda dei Maghi, dovreste fornire tutti gli altri ingredienti e pagarla. Ma ho imparato la mia arte nelle terre selvagge, dove non esisteva alcun creatore di pozioni in grado di dissolvere diamanti in polvere. Quando devi fare tutto a mano, con la tua sola abilità, ti accontenti degli scarti che quegli stupidi testoni della gilda sprecano come nulla fosse."

    "La racconti molto bene", disse Nimloth, "Ma come sappiamo che la tua pozione funzionerà? Se crei una pozione, prendi il resto del diamante di Oediad e te ne vai, non sapremo se la pozione funzionerà finché non te ne sarai andata."

    "Ah, la fiducia è cosa rara al giorno d'oggi", sospirò Abelle. "Forse potrei creare due pozioni per voi e per me avanzerebbe comunque un po' di diamante. Non molto, ma probabilmente abbastanza da portarmi ad Ald Redaynia. Dopodiché, potreste provare subito la prima pozione e vedere se vi soddisfa."

    "Ma", interruppi, "potresti creare una pozione che funziona e l'altra no, e impossessarti di più diamante. Potresti addirittura somministrarci un veleno dall'effetto lento e per quando sarai arrivata ad Ald Radaynia saremo morti."

    "Santa Kynareth, quanto siete sospettosi voi dunmer! Difficilmente avanzerà del diamante, ma potrei fare due pozioni, ognuna con due dosi, così potrete convincervi che funzionano entrambe senza effetti collaterali. Se ancora non vi fidate, venite con me al mio tavolo e osservatemi mentre le preparo."

    Così si decise che io avrei riaccompagnato Abelle al suo tavolo dove aveva le sue borse da viaggio piene di erbe e minerali, per assicurarmi che non preparasse due pozioni differenti. Ci volle quasi un'ora per crearle, ma cortesemente mi permise di finire la sua fiasca di vino mentre la guardavo lavorare. Spezzare il diamante e polverizzarne i pezzi richiese la maggior parte del tempo: muoveva ripetutamente le sue mani rugose sulla gemma, intonando antichi incantesimi, frantumando le facce della pietra in parti sempre più piccole. Separatamente preparò un impasto di verdamara tritato, poltiglia di bulbi rossi di arco spae e gocce di olio ciciliani. Finii il vino.

    "Vecchia", dissi infine sospirando, "quanto ci vuole ancora? Sono stanco di guardarti lavorare."

    "La Gilda dei Maghi ha ingannato la popolazione spacciando l'alchimia per una scienza", disse. "Ma se sei stanco, riposa gli occhi."

    A quanto pare, i miei occhi si chiusero di loro spontanea volontà. In quel vino doveva esserci qualcosa. Qualcosa che mi costringeva a seguire i suoi ordini.

    "Penso che creerò delle pozioni sotto forma di dolci. Sono molto più potenti in quel modo. Ma ora dimmi, giovane, cosa faranno i tuoi amici quando darò loro la pozione?"

    "Ti aggrediranno per strada subito dopo per recuperare il resto del diamante", dissi semplicemente. Non volevo dire la verità, ma eccola lì.

    "Immaginavo, ma volevo esserne certa. Ora puoi aprire gli occhi."

    Aprii i miei occhi. Abelle aveva preparato un piccolo assortimento su un vassoio di legno: due piccoli dolci e un coltello d'argento.

    "Prendi i dolci e portali al tavolo", disse Abelle. "E non dire niente, a parte concordare con tutto ciò che dico."

    Feci come mi era stato detto. Era una sensazione curiosa. Quasi non mi dispiaceva essere il suo pupazzo. Naturalmente, a posteriori, mi risentii, ma in quel momento mi sembrava perfettamente naturale obbedire senza fare domande.

    Abelle consegnò i dolci a Oediad e confermai obbediente che erano stati preparati entrambi allo stesso modo. Suggerì di tagliare un dolce a metà, un pezzo per sé e uno per il mio compagno, così da verificare che funzionassero e che non fossero avvelenati. Oediad pensò che fosse una buona idea e usò il coltello di Abelle per tagliare il dolce. Abelle prese il pezzo a sinistra e se lo ficcò in bocca. Oediad prese il pezzo a destra e lo ingoiò con più cautela.

    Abelle e tutte le borse che stava portando svanirono quasi istantaneamente. A Oediad non accadde nulla.

    "Perché ha funzionato con la strega e non con me?" si lamentò Oediad.

    "Perché la polvere di diamante era solo sul lato sinistro della lama", disse la vecchia alchimista tramite la mia voce. Sentii il suo controllo scemare mentre la distanza aumentava e percorreva velocemente le strade oscure di Ald'ruhn, lontano dalla locanda Il Ratto e il Boccale.

    Non ritrovammo mai né Abelle Chirditte né il diamante. Tutti si chiedono se la vecchia abbia completato il suo pellegrinaggio ad Ald Redaynia. I dolci non sortirono alcun effetto su Oediad, se non una brutta forma di depressione che durò quasi una settimana.
     
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  3. Varil

    Varil Galactic Guy

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    Il canto degli alchimisti

    Antiche leggende dei dwemer
    Parte V


    di
    Marobar Sul

    Quando l'alchimista di Re Maraneon dovette abbandonare la sua posizione
    dopo un esperimento di laboratorio che produsse un'esplosione,
    si sparse la voce che il re voleva
    un nuovo sapiente
    per miscelare le pozioni e gli infusi.
    Ma dichiarò che avrebbe scelto soltanto
    un individuo che conosceva i trucchi e gli strumenti.
    Il re rifiutava di assoldare ancora degli stolti.

    Dopo molto ponderare, discutere e dibattere
    il re scelse due assai eruditi candidati.
    Ianthippus Minthurk e Umphatic Faer,
    una coppia assai ambiziosa:
    rivaleggiarono per provare chi di loro fosse il migliore.
    Esordì il re: "Vi sarà una prova".
    Si recarono in un'ampia camera con erbe, gemme, volumi,
    marmitte, coppe dosatrici, tutte avvolte in alte cupole cristalline.

    "Createmi un infuso che mi renda invisibile",
    rise il re con un tono che qualcuno definirebbe ridicolo.
    Così Umphatic Faer e Ianthippus Minthurk
    iniziarono a lavorare,
    triturando erbe, battendo metallo, raffinando strani oli,
    portando con cautela i loro calderoni al gorgogliante bagliore,
    ciascuno per proprio conto, così che i mortai miscelassero a dovere,
    talvolta sbirciando per vedere cosa l'altro combinava.

    Quando entrambi ebbero lavorato per quasi tre quarti d'ora
    sia Ianthippus Minthurk che Umphatic Faer
    ammiccarono vicendevolmente, certi ognuno di aver vinto.
    Disse Re Maraneon:
    "Ora dovrete provare le pozioni che avete preparato,
    prendete un cucchiaio e assaggiatele proprio dalla vostra coppa",
    Minthurk svanì non appena le sue labbra sfiorarono l'infuso,
    ma Faer assaggiò il suo e rimase visibile nell'apparenza.

    "Pensasti di miscelare argento, diamanti blue ed erba gialla!",
    rise il re: "Guarda in alto, Faer, fino sulla volta di vetro".
    La luce che ne discende dona agli ingredienti che scegliesti
    tonalità alquanto differenti".
    "Cosa si ottiene", chiese la voce fluttuante, fiera,
    "da una pozione di diamanti rossi, erba blu e oro?".
    "Per [dio dwemer]", disse Faer con un ghigno sul volto,
    "ho preparato una pozione per fortificare la mia stessa intelligenza".


    Nota dell'editore:

    Questa poesia è così chiaramente consona allo stile di Gor Felim che in realtà non necessita di alcun commentario. Notare il semplice schema AA/BB/CC delle rime, la metrica cantilenante ma decisamente sgraziata e le ricorrenti battute sui nomi ovviamente assurdi, Umphatic Faer e Ianthippus Minthurk. La farsa finale in cui lo stolto alchimista inventa una pozione per rendersi più scaltro per pura casualità, avrebbe attratto senz'altro il pubblico anti-intellettuale del periodo dell'Interregno, ma sarebbe stata senza dubbio respinta dai dwemer.

    Notare che perfino Marobar Sul rifiuta di nominare qualsiasi divinità dwemer. La religione dwemer, se così può essere realmente definita, è uno degli enigmi più complessi e difficoltosi della loro cultura.

    Nel corso dei millenni, il canto divenne una popolare canzone da taverna a High Rock, prima di scomparire del tutto infine, restando retaggio dei testi accademici. Proprio come gli stessi dwemer.


    *************************


    Il colpo mortale di Ebernanit


    Con le spiegazioni del saggio
    Geocrates Varnus

    Spalti distrutti e mura in rovina
    laddove il culto dell'orrore (1) un tempo si abbracciava.
    I morsi del gelo e del vento di cinquanta inverni (2)
    hanno spezzato e quasi sepolto le sacrileghe porte
    e fatto crollare al suolo la cruda, oscena guglia.
    Ovunque è polvere, tutto non è altro che polvere.
    Il sangue si è seccato e gli echi delle grida sono cessati.
    Incorniciate dalle colline nella più selvaggia e dimenticata terra
    di Morrowind
    giacciono le nude ossa di Ebernanit.

    Quando il tre volte benedetto Rangidil (3) vide la prima volta Ebernanit,
    essa riluceva di bagliori argentei carica di potere e persistenza.
    Un luogo spaventoso sorvegliato da terribili uomini,
    con occhi lucidi di delirio e forza originata dall'orrore.
    Rangidil vide che il numero dei nemici era assai più grande
    dei pochi ordinatori e degli armigeri volontari che conduceva,
    guardando dalle colline sovrastanti il campo e il castello della morte,
    fermo in attesa, maledì le anime del popolo
    di Morrowind.
    Il maledetto, iniquo castello di Ebernanit.

    L'alarum venne suonato chiamando in battaglia i sacri guerrieri,
    per rispondere allo scudo della malvagità con la lancia della giustizia,
    per farsi animo per la prossima battaglia e mostrar cuore impavido.
    Rangidil a sua volta afferrò il suo scudo e brandì la sottile lancia d'ebano
    e il clamore della battaglia ebbe inizio con un echeggiante clangore
    per scuotere le nubi fin su nel cielo.
    Le mura di difesa furono abbattute e il sangue ristagnò
    sul terreno di battaglia. Una battaglia mai vista
    a Morrowind
    per distruggere la malvagità di Ebernanit.

    La delirante orda era abile con le armi, questo è certo,
    ma i tre sacri pugni della Madre, del Signore e del Mago (4) respinsero
    l'esercito di mostri carica dopo carica.
    Rangidil vide dall'alto, mentre incitava le armate alla difesa,
    Dagoth Thras (5) stesso sulla guglia della sua funesta torre
    e capì che solo quando il cuore del male fosse stato estirpato
    la terra avrebbe potuto dirsi salva per sempre.
    Giurò dinanzi al tempio e al Sacro Tribunale
    di Morrowind
    di prendere la Torre di Ebernanit.

    In una violenta offensiva, la base della torre fu trafitta,
    ma ogni sforzo di abbattere la guglia valse a nulla
    come se tutta la potenza dell'orrore sostenesse quell'unica torre.
    Il pozzo delle scale era ripido e così stretto
    che due guerrieri non potevano salirlo fianco a fianco.
    Dunque l'armata in fila indiana si inerpicò verso l'alto
    per prendere la sala della torre e porre fine al regno
    di uno dei più crudeli e meschini tiranni negli annali
    di Morrowind:
    Dagoth Thras di Ebernanit.

    Attesero un grido di vittoria fin dai primi che scalarono la torre,
    ma solo il silenzio fu di ritorno e quindi il sangue,
    prima soltanto un rivolo, poi un fiume scarlatto
    ridiscese dalla ripida scala, con il grido dalla sommità,
    "Dagoth Thras sta sconfiggendo i nostri guerrieri uno a uno!".
    Rangidil richiamò la sua armata, ogni ordinatore e
    armigero volontario e ascese quelle scale in persona,
    superando i resti sanguinanti dei migliori guerrieri
    di Morrowind
    verso la sala della Torre di Ebernanit.

    Come un corvo portatore di morte nel suo nido, così se ne stava Dagoth Thras
    sulla porta della sala della torre impugnando il suo scudo e la sua spada insanguinati.
    Ogni stoccata della lancia di Rangidil fu bloccata con facilità;
    ogni fendente della spada di Rangidil venne deviato semplicemente;
    ogni colpo della mazza di Rangidil incontrò il suo scudo;
    ogni rapida freccia scagliata mancò il bersaglio,
    poiché il più grande potere del mostro risiedeva nella sua terribile benedizione
    per cui nessun'arma di nessun guerriero di tutte le terre
    di Morrowind
    avrebbe potuto trapassare lo scudo di Ebernanit.

    Col passar delle ore, Rangidil giunse a capire
    come i suoi migliori guerrieri persero la vita contro Dagoth Thras.
    Poiché riuscì a stancarli bloccando ogni loro attacco
    e quindi, così indeboliti, furono facilmente falciati.
    Lo scellerato era paziente e abile con lo scudo
    e anche Rangidil sentì le sue possenti braccia farsi pesanti,
    mentre Dagoth Thras anticipava e bloccava ogni fendente
    e Rangidil temeva che senza la benedizione dei Tre Divini
    di Morrowind
    sarebbe morto nella Torre di Ebernanit.

    Ma ancora resisteva colpendo ripetutamente e gridando,
    "Nemico! Sono Rangidil, un principe del vero tempio,
    ho combattuto innumerevoli battaglie e molti guerrieri
    provarono a fermare la mia spada e fallirono.
    Ben pochi sanno prevedere che colpo stia per sferrare
    e ancora meno, pur sapendo ciò, sanno come impedire che vada a segno,
    o posseggono la forza per incassare ogni mio colpo.
    Non c'è più grande maestro nell'arte di parare con lo scudo in tutte le terre
    di Morrowind
    di colui che dimora nel castello di Ebernait.

    Nemico, oscuro signore Dagoth Thras, prima che tu mi abbatta,
    ti supplico, dimmi come hai appreso l'arte del parare".
    Malignamente orgoglioso, Dagoth Thras ascoltò la supplica di Rangidil
    e decise che prima di trucidare il campione del tempio
    si sarebbe degnato di offrirgli un po' di conoscenza per la vita ultraterrena,
    di come il suo istinto e i suoi riflessi agivano, ma come iniziò
    a spiegare, si rese conto di non saper come avveniva
    e osservò sbalordito mentre Rangidil assestava ciò che le leggende
    di Morrowind
    chiamarono "il colpo mortale di Ebernanit".

    Note di Geocrates Varnus:
    (1) "L'orrore" si riferisce a Mehrunes Dagon, il principe daedrico.
    (2) "Cinquanta inverni" suggerisce che tale narrazione epica fu scritta cinquanta anni dopo l'Assedio di Abernanit, che ebbe luogo nel 3E 150.
    (3) "Tre volte benedetto Rangidil" si riferisce a Rangidil Ketil, nato nel 2E 803 e morto nel 3E 195. Era il comandante degli Ordinatori del Tempio: "tre volte benedetto" per essere stato benedetto dal Tribunale dei Divini.
    (4) "Madre, Signore e Mago" si riferiscono al Tribunale di Almalexia, Vivec e Sotha Sil.
    (5) "Dagoth Thras" era un potente adoratore dei daedra di origini ignote che si auto-proclamò erede della Sesta Casa, sebbene ci siano ben poche prove della sua discendenza dalla famiglia scomparsa.
     
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  4. Varil

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    Lo Specchio

    di Berdier Wreans

    Il vento soffiava sulla distesa aperta, agitando avanti e indietro i pochi alberi presenti con il fastidio che ne derivava. Un giovane con un turbante verde brillante si avvicinò all'esercito e porse al comandante le condizioni per la pace imposte dai suoi capi. Ricevette un rifiuto come risposta. Sarebbe stata battaglia, la battaglia di Ain-Kolur.

    Così il capo Iymbez decretò l'inizio delle ostilità e i suoi cavalieri si ritrovarono in guerra ancora una volta. Molte volte la tribù aveva tentato di occupare un territorio estraneo e altrettante volte l'approccio diplomatico si era rivelato un fallimento. Si era giunti a questo punto, infine. Accadde la stessa cosa con Mindothrax. I suoi alleati potevano vincere o perdere, ma lui sarebbe comunque sopravvissuto. Sebbene si fosse occasionalmente trovato a combattere dalla parte della fazione perdente, mai una volta nei suoi trentaquattro anni era stato sconfitto in un combattimento corpo a corpo.

    I due eserciti si riversarono attraverso la polvere come impetuose correnti spumeggianti, e quando si scontrarono si udì un terrificante frastuono echeggiare sulle colline. Il sangue, il primo liquido che quell'argilla avesse assaggiato dopo molti mesi di siccità, danzava simile a polvere. Le urla di battaglia delle tribù rivali, ora assordanti ora più deboli, creavano una sorta di armonia mentre i guerrieri fendevano le carni l'uno dell'altro. Mindothrax si sentiva nel suo elemento naturale.

    Dopo dieci ore di combattimento senza che nessuna delle due parti guadagnasse terreno, entrambi i comandanti ordinarono una reciproca e onorevole ritirata dal campo di battaglia.

    L'accampamento si trovava nel giardino di un antico cimitero circondato da alte mura e adornato dai boccioli primaverili. Mentre Mindothrax perlustrava il terreno, gli tornò alla mente la casa della sua infanzia. Fu un ricordo gioioso e triste al tempo stesso, la purezza delle aspirazioni infantili, il periodo del suo addestramento nell'arte del combattimento, ma offuscata dal pensiero della sua povera madre. Una splendida donna che guardava a suo figlio con orgoglio e al tempo stesso con un dolore inespresso. Non parlò mai di ciò che la turbava, ma non fu una sorpresa per nessuno quando la videro allontanarsi verso la brughiera e la ritrovarono alcuni giorni dopo con la gola recisa dalla sua stessa mano.

    L'esercito era come una colonia di formiche da poco sconvolta. Trascorsa una mezz'ora dalla fine della battaglia, i combattenti si erano riorganizzati quasi agendo d'istinto. Mentre i guaritori davano un'occhiata ai feriti, qualcuno fece notare, con ammirazione e sorpresa: "Guardate Mindothrax. Non ha nemmeno un capello fuori posto".

    "E' uno spadaccino formidabile", disse il guaritore in servizio.

    "La spada è uno strumento notevolmente sopravvalutato", disse Mindothrax, nondimeno lusingato da tante attenzioni. "I guerrieri si concentrano eccessivamente nell'atto di colpire e non sufficientemente nel difendersi dai colpi dell'avversario. Il modo migliore per andare in battaglia è badare a difendersi e colpire l'avversario solo quando si presenta il momento ideale".

    "Io preferisco un approccio più diretto", disse sorridendo un ferito. "E' la maniera di combattere dei cavalieri".

    "Se è la maniera delle tribù Bjoulsae per essere sconfitte, allora rinuncio alla mia eredità", disse Mindothrax facendo un rapido cenno agli spiriti a indicare che intendeva solo essere espressivo e non blasfemo. Ricordate ciò che diceva il grande maestro spadaccino Gaiden Shinji: <<Le tecniche migliori vengono tramandate da chi sopravvive>>. Ho combattuto in trentasei battaglie e non ho riportato alcuna cicatrice da esibire. Questo perché mi affido al mio scudo e in seguito alla mia spada, in quest'ordine.

    "Qual è il vostro segreto?"

    "Pensate alla mischia della battaglia come a uno specchio. Io guardo il braccio sinistro del mio avversario quando intendo colpire con il mio braccio destro. Se è pronto a parare il mio colpo, allora non lo sferro. Perché sprecare forze inutilmente?", Mindothrax aggrottò un sopraciglio. "Ma quando vedo il suo braccio destro teso, il mio sinistro ricorre allo scudo. Vedete, per colpire occorre una forza due volte superiore a quella necessaria per deviare. Quando con lo sguardo si riesce a intuire se l'avversario colpirà dall'alto in basso, o angolato, o dal basso in alto, è sufficiente imparare come ruotare su se stessi e posizionare lo scudo in modo da proteggersi. Potrei continuare a parare colpi per ore se fosse necessario, ma generalmente occorrono solo pochi minuti, talvolta perfino secondi, prima che il mio avversario, avvezzo ad attaccare, si scopra incautamente tanto da permettermi di sferrare il mio colpo.

    "Qual è il periodo più lungo per cui avete dovuto difendervi?", chiese un uomo ferito.

    "Una volta ho tenuto testa a un uomo per un'ora intera", disse Mindothrax. Era instancabile con il suo martellamento e non mi lasciava nemmeno il tempo per fare altro, se non parare i suoi colpi. Ma infine impiegò troppo tempo per sollevare la mazza e lo centrai nel petto. Colpì un migliaio di volte il mio scudo, io una sola volta il suo cuore. Ma quella fu sufficiente".

    "Quello quindi fu il vostro più temibile avversario?", chiese il guaritore.

    "Oh, nient'affatto", disse Mindothrax ruotando il suo grande scudo in modo che il metallo argentato riflettesse il suo stesso volto. "Eccolo il mio peggior avversario".

    Il giorno seguente la battaglia ricominciò. Capo Iymbez aveva portato dei rinforzi provenienti dalle isole del sud. Con orrore e disperazione della tribù, alla guerra partecipavano anche mercenari, cavalieri rinnegati e persino streghe Reachmen. Mentre Mindothrax osservava il radunarsi degli eserciti sul campo di battaglia, indossando il suo elmo e preparando il suo scudo e la sua spada, il suo pensiero tornò nuovamente a sua madre. Che cosa la tormentava tanto? Perché non era mai riuscita a guardare suo figlio senza provare angoscia?

    Dall'alba al tramonto, la battaglia infuriò. Un luminoso cielo azzurro brillava sui combattenti che si scagliavano incessantemente l'uno contro l'altro. In ogni mischia, Mindothrax prevaleva. Uno dei nemici con un'ascia sferrò una serie di fendenti contro il suo scudo, ma furono immancabilmente tutti deviati, finché Mindothrax non ebbe infine la meglio sul guerriero. Una donna lanciere quasi perforò il suo scudo al primo colpo, ma Mindothrax sapeva come incassare il colpo, facendola sbilanciare e lasciandola esposta al suo contrattacco. Infine, si trovò a fronteggiare un mercenario sul campo, armato di spada e di scudo, con indosso un elmo di bronzo dorato. Combatterono per un'ora e mezzo.

    Mindothrax provò ogni tecnica che conosceva. Quando il mercenario tendeva il braccio sinistro, lui tratteneva il colpo. Quando il suo avversario sollevava la spada, lui sollevava similmente lo scudo e con maestria bloccava il colpo. Per la prima volta nella sua vita, aveva di fronte qualcuno che adottava la sua stessa tecnica difensiva. Imperturbabili, riflessivi, con l'energia per combattere per giorni se fosse stato necessario. Occasionalmente un altro guerriero si univa al loro scontro, talvolta dall'esercito di Mindothrax, talvolta da quello dell'avversario. Tali intrusioni venivano prontamente liquidate e i campioni tornavano al loro duello.

    Mentre combattevano, girando in cerchio l'uno intorno all'altro, rispondendo con parate ai colpi e con colpi alle parate, nella mente di Mindothrax balenò l'idea che infine aveva trovato lo specchio perfetto.

    Quella lotta acquistò la parvenza di un gioco, quasi di una danza, piuttosto che di un duello all'ultimo sangue. Fu soltanto quando Mindothrax sbagliò il suo stesso passo, sferrando il colpo troppo presto e sbilanciandosi, che quella danza ebbe termine. Vide, piuttosto che percepire, la lama dell'avversario squarciarlo dalla gola al torace. Un ottimo colpo. Proprio il genere di colpo che lui stesso avrebbe sferrato.

    Mindothrax cadde al suolo, sentendo la vita scivolargli via. Il mercenario era su di lui, pronto a dare al suo valoroso avversario il colpo di grazia. Era un atto insolito e onorevole per uno straniero e Mindothrax ne fu profondamente commosso. Dall'altra parte del campo di battaglia qualcuno gridò ciò che a lui parve un nome molto simile al suo.

    "Jurrifax!".

    Il mercenario si tolse l'elmo per rispondere. Non appena lo fece, Mindothrax intravide attraverso le fessure del suo elmo la sua stessa immagine riflessa nel volto dell'uomo. Quelli erano i suoi occhi ravvicinati, i suoi capelli rossastri, la sua bocca sottile e ampia, il suo mento sporgente. Per un momento rimase stupefatto dinanzi a quell'immagine speculare, prima che lo straniero si voltasse e gli infliggesse il suo colpo mortale.

    Jurrifax fece ritorno dal suo comandante e venne ben pagato per la parte avuta nella vittoria della giornata. Si ritirarono per un pasto caldo sotto le stelle in un giardino presso un antico cumulo di pietre che precedentemente era stato occupato dai loro nemici. Il mercenario fu pervaso da grande serenità mentre osservava il paesaggio.

    "Siete già stato qui prima d'ora, Jurrifax?", chiese uno degli uomini della tribù che lo aveva assoldato.

    "Ero destinato a essere un cavaliere come voi. Mia madre mi vendette appena nato. Mi sono sempre chiesto se la mia vita sarebbe stata differente se solo non fossi stato abbandonato. Forse non sarei mai divenuto un mercenario".

    "Sono molte le cose che decidono il nostro destino", disse una strega. "E' folle tentare di indovinare cosa sarebbe accaduto se avessimo preso una decisione piuttosto che un'altra. Non esiste nessuno che sia esattamente come noi stessi, quindi è una follia fare confronti".

    "Ma ve n'è uno", disse Jurrifax guardando le stelle. "Il mio padrone, prima di liberarmi, mi disse che mia madre ebbe due gemelli quando io nacqui. Poteva permettersi di sfamare solo uno dei due, ma da qualche parte là fuori, esiste un uomo esattamente uguale a me. Mio fratello. Spero di incontrarlo".

    La strega avvertì la presenza degli spiriti al suo cospetto e comprese che i due gemelli si erano già incontrati. Rimase in silenzio a fissare il fuoco, scacciando tali pensieri dalla mente, troppo saggia per rivelarli tutti.
     
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    Ossa, Parte I
    Di Tavi Dromio

    "Secondo me...", disse Garaz, osservando pensieroso il fondo del suo boccale di flin. "Tutte le grandi idee arrivano per puro caso. Ricordate la storia su mio cugino, che vi ho raccontato ieri notte? Se non fosse caduto da cavallo, non sarebbe mai diventato uno dei migliori alchimisti dell'Impero".


    Era una tarda notte di Middas alla locanda "Prosciutto del Re" e, come sempre a quell'ora, i clienti abituali erano particolarmente inclini alla filosofia.


    "Non sono d'accordo", replicò Xiomara, educatamente ma con fermezza. "Le grandi idee e le invenzioni si formano lentamente nel tempo, con la perseveranza e il lavoro duro. Ricordi la storia che ho raccontato il mese scorso? La signorina... e ti assicuro che è accaduto veramente... ha riconosciuto il vero amore solo dopo aver giaciuto praticamente con ogni abitante di Northpoint".


    "Vi dico che sbagliate entrambi", asserì Hallgerd, rabboccando il suo boccale di greef. "Le migliori invenzioni scaturiscono nei momenti di maggior bisogno. Devo forse ricordavi la storia che vi ho raccontato un po' di tempo fa? Quella su Arslic Oan e l'invenzione dell'armatura d'ossa fuse?".


    "La tua teoria ha un unico problema: si basa su un esempio completamente inventato", obiettò Xiomara, tirando su con il naso.


    "Non mi pare di ricordare alcuna storia su Arslic Oan e l'invenzione dell'armatura d'ossa fuse", disse Garaz, aggrottando le sopracciglia. "Sei sicuro di avercela raccontata?".


    "Tutto accadde molti, molti, molti anni fa, quando Vvardenfell era una splendida terra verdeggiante, i dunmer si chiamavano chimer e dwemer e nord convivevano pacificamente senza tentare di uccidersi a vicenda". Hallgerd si appoggiò allo schienale della sedia, appassionandosi al proprio racconto. "Quando il sole e le lune erano visibili in cielo nello stesso momento...".


    "Per il Lord, la Madre e il Mago!", bofonchiò Xiomara. "Se proprio devo essere costretto ad ascoltare la tua stupida storia un'altra volta, almeno risparmiaci i dettagli inutili e non farla più lunga del necessario!"


    Con ammirevole autocontrollo, Hallgerd ignorò l'interruzione di Xiomara e proseguì il suo racconto... Tutto accadde a Vvardenfell, molti anni fa, quando regnava un sovrano di cui non avete mai sentito parlare. Arslic Oan era un nobile di corte molto, ma molto antipatico. Essendo egli molto fedele alla Corona, il re si sentì in dovere di garantirgli un castello e delle terre. Per evitare di ritrovarselo come vicino, gli concesse una regione priva di qualsiasi traccia di civilizzazione. Si trovava in una zona di Vvardenfell che, persino al giorno d'oggi, non è ancora del tutto civilizzata. Arslic Oan eresse una roccaforte, la circondò con un muro e vi si insediò insieme ai suoi infelici schiavi per godersi una vita tranquilla, seppure abbastanza tetra.


    Non molto tempo dopo, la solidità della sua fortezza venne messa alla prova. Una tribù di nord cannibali occupava la valle già da un po' di tempo, mangiandosi a vicenda. Occasionalmente, però, si nutrivano anche di coloro che chiamavano i 'carne scura', ossia i dunmer.


    Xiomara rise, apprezzando molto la storia. "Fantastico! Non me lo ricordavo. E' strano... oggigiorno non si sente più parlare del feroce cannibalismo dei nord".


    Ovviamente questi eventi sono accaduti molto tempo fa - disse Hallgerd, squadrando parte del suo pubblico con civile malevolenza - Le cose erano molto diverse, allora. I nord cannibali iniziarono ad attaccare gli schiavi di Arslic Oan nei campi. Pian piano, acquistarono coraggio fino ad assediare la stessa roccaforte. Come potete immaginare, costituivano uno spettacolo piuttosto terrificante: un'orda selvaggia di uomini e donne dai denti affilati per strappare la carne, armati con mazze enormi e vestiti unicamente con le pelli delle loro vittime.


    Arslic Oan pensò che, se li avesse ignorati, se ne sarebbero andati.


    Purtroppo, la prima cosa che fecero i nord fu avvelenare il corso d'acqua che riforniva la roccaforte. In breve tempo, prima che il sabotaggio venisse scoperto, tutto il bestiame era morto, insieme alla maggior parte degli schiavi. Non c'era alcuna speranza di ricevere aiuto: gli emissari del re avrebbero fatto visita con riluttanza all'antipatico vassallo solo alcuni mesi più tardi. La sorgente d'acqua più vicina era sul versante opposto della collina, così Arslic Oan inviò tre dei suoi schiavi a riempire degli otri.


    Dopo appena qualche passo fuori dai cancelli della roccaforte, vennero malmenati e sbranati. Al gruppo successivo furono dati dei bastoni per difendersi e riuscì a fare qualche passo in più prima di essere sopraffatto, malmenato e divorato. Era chiaro che fosse necessario un sistema di difesa personale più efficace. Arslic Oan andò a parlare con il suo corazziere, uno schiavo dotato di un talento particolare.


    Gli disse: "Se vogliamo che gli schiavi riescano a raggiungere il fiume e a tornare indietro, dobbiamo fornire loro delle corazze. Recupera ogni singolo frammento di acciaio e ferro. Ogni cardine, coltello, anello e tazza! Tutto ciò che non serve a fortificare le mura, fondilo e fammi avere la corazza migliore che riesci a creare! E sii molto, molto rapido!"


    Il corazziere, che si chiamava Gorkith, era abituato alle pretese di Arslic Oan e sapeva che non avrebbe accettato compromessi sulla qualità e la quantità delle corazze, né sulla rapidità. Lavorò ininterrottamente per trenta ore, e tenete presente che non aveva a disposizione acqua per placare la sete, mentre faticava alla fornace e all'incudine. Alla fine, riuscì a produrre sei armature di metalli misti.


    Vennero scelti sei schiavi per indossare le armature e recarsi al fiume a riempire gli otri. All'inizio, la missione non ebbe problemi. I nord attaccarono gli schiavi con le mazze, ma questi continuarono ad avanzare senza subire i colpi. Ciononostante, i loro passi sembrarono farsi gradualmente sempre più incerti. Gli attacchi costanti iniziavano a stordirli. Alla fine, caddero uno dopo l'altro, vennero spogliati delle armature e divorati.


    Arslic Oan andò a lamentarsi con Gorkith. "Gli schiavi non riescono a muoversi abbastanza rapidamente dentro le tue corazze! Raduna tutte le carcasse del bestiame avvelenato, scuoiale e fammi avere le migliori armature di cuoio possibili. E sii molto, molto rapido!"


    Gorkith fece ciò che gli era stato ordinato, sebbene fosse un incarico particolarmente repellente, dato l'avanzato stato di putrefazione del bestiame. Normalmente, il trattamento e la conciatura delle pelli richiede molto tempo, o almeno così mi è stato detto. Gorkith lavorò incessantemente e, nel giro di mezza giornata, aveva prodotto dodici armature di pelle.


    Vennero scelti dodici schiavi per indossare le armature e recarsi al fiume a riempire gli otri. All'inizio, se la cavarono molto meglio dei loro predecessori. Due caddero quasi immediatamente, ma gli altri riuscirono, con un po' di fortuna, a schivare gli assalitori e gli occasionali colpi di mazza. Diversi raggiunsero il fiume, tre riuscirono a riempire gli otri e uno tornò quasi ai cancelli della roccaforte. Purtroppo, cadde e venne divorato. I nord avevano proprio un bell'appetito.


    Arslic Oan disse pensieroso a Gorkith: "Ciò di cui abbiamo bisogno, prima di rimanere senza schiavi, è una corazza più resistente del cuoio ma più leggera del metallo".


    Il corazziere ci aveva già pensato e aveva fatto scorta di tutto il materiale disponibile. Dapprima aveva considerato l'idea di creare qualcosa usando le pietre o il legno, ma c'era il problema pratico di dover demolire una parte ulteriore della roccaforte per reperirli. Il secondo materiale più abbondante erano le carcasse scuoiate: ammassi di muscoli, grasso, sangue e ossa. Sgobbò senza sosta per sei ore e produsse diciotto armature d'ossa fuse. Erano le prime mai create. Alla vista (e all'odore) delle armature, Arslic Oan rimase piuttosto perplesso. Ciononostante, aveva molta sete e, se necessario, era disposto a sacrificare altri diciotto schiavi.


    "Posso suggerire di far abituare gli schiavi alle armature qui nel cortile, prima di mandarli ad affrontare i nord?", disse ossequiosamente Gorkith.


    Arslic Oan concesse gelidamente la sua autorizzazione e, per alcune ore, gli schiavi vagarono per il cortile della roccaforte nelle loro armature d'ossa fuse. Si abituarono all'elasticità delle giunture, alla rigidità dello schienale, al peso sulle spalle e suoi fianchi. Impararono a posare i piedi leggermente di traverso, in modo da mantenere l'equilibrio, a voltarsi rapidamente senza cadere a terra, a iniziare a correre e a fermarsi di colpo. Quando uscirono dai cancelli, erano quasi al livello di dilettanti nell'uso delle loro armature di peso medio.


    Diciassette vennero uccisi e divorati, ma uno tornò indietro portando con sé un otre pieno d'acqua.


    "Ma non ha alcun senso!", protestò Xiomara. "Comunque dimostra che avevo ragione. Come tutti i grandi inventori, persino quelli inventati, il corazziere ha lavorato diligentemente per inventare l'armatura d'ossa fuse".


    "Secondo me anche il caso ha avuto un ruolo fondamentale", disse Garaz, corrucciato. "In ogni caso, è una storia raccapricciante e vorrei che non l'avessi mai raccontata".


    "Se credi che sia raccapricciante ora...", sogghignò Hallgerd. "Dovresti sentire cosa accadde in seguito!"
     
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    Ossa, Parte II
    di Tavi Dromio

    "In che senso la storia diventa ancora più raccapricciante?", chiese Garaz, incredulo. "Per l'amore di Boethiah, non è possibile!"


    "E' solo un trucco", lo derise Xiomara, ordinando altri due boccali di greef e un bicchiere di flin per Garaz. "Come può peggiorare una storia basata principalmente sul cannibalismo, l'abuso di schiavi e l'utilizzo costante di carcasse putrefatte di animali?".


    "Non vi permettete!", ringhiò Hallgerd, infastidito dalla mancanza d'apprezzamento per il suo stile narrativo da parte degli ascoltatori. "Ricordatemi a che punto ero arrivato".


    "Arslic Oan possiede una roccaforte assediata da un gruppo di selvaggi nord cannibali", disse Xiomara, tentando di mantenere un'espressione seria. "Dopo molte morti e diversi tentativi infruttuosi di recuperare un po' d'acqua, ordina al suo corazziere (dall'improbabile nome di Gorkith) di equipaggiare i suoi schiavi con le primissime armature d'ossa fuse mai create. Finalmente, uno di loro torna indietro con l'acqua".


    Era solo un otre d'acqua - disse Hallgerd, appoggiandosi nuovamente allo schienale e riprendendo il racconto - e Arslic Oan ne bevve la maggior parte, passando ciò che restava al suo caro corazziere Gorkith. Le poche decine di schiavi sopravvissute dovettero dividersi qualche goccia, a malapena sufficiente per mantenersi in salute. Era necessaria un'altra spedizione, ma rimaneva una sola armatura d'ossa fuse... e un unico superstite dal viaggio precedente".


    Arslic Oan disse a Gorkith: "Solo uno schiavo su diciotto è riuscito a eludere l'assedio dei nord indossando la tua prodigiosa armatura d'ossa fuse. Uno schiavo può trasportare solo la quantità d'acqua necessaria per dissetare una persona. Se facciamo i conti... inclusi me e te, ci sono cinquantasei persone nella roccaforte. Ci servono cinquantaquattro armature. Una l'abbiamo già, quindi devi solo crearne altre cinquantatré. In questo modo, tre schiavi riusciranno a tornare indietro con acqua a sufficienza per me, te e chiunque sia in condizione di prendere parte alla spartizione. Non so cosa faremo dopo ma, se continuiamo ad aspettare, non avremo schiavi a sufficienza per rifornirci neppure per un paio di giorni".


    "Capisco", piagnucolò Gorkith, "ma come posso creare le armature? Ho usato tutte le ossa di bestiame per creare la prima serie".


    Arslic Oan rispose con un ordine, al quale Gorkith obbedì con timore. Nel giro di diciotto ore...


    "Che vuol dire 'Arslic Oan rispose con un ordine, al quale Gorkith obbedì con timore'?", chiese Xiomara. "Qual era quest'ordine?".


    "Tutto sarà chiaro a suo tempo!", rispose Hallgerd con un sorriso. "Devo scegliere cosa rivelare e cosa tacere. E' così che si raccontano le storie".


    Hallgerd riprese il racconto, senza prestare attenzione all'interruzione... Nel giro di diciotto ore, Gorkith aveva creato cinquantatré armature d'ossa fuse. Ordinò agli schiavi di indossarle e di abituarsi a esse, permettendo loro di allenarsi per un tempo maggiore rispetto ai predecessori. Non solo impararono a spostarsi e fermarsi rapidamente, ma anche a regolare la visuale periferica per individuare la direzione di un colpo in arrivo e schivarlo. Inoltre, individuarono i punti maggiormente fortificati (il centro del tronco e l'addome) e impararono a ignorare l'istinto, posizionandosi in modo da essere colpiti esattamente in quei punti. Ebbero persino il tempo per simulare un combattimento, prima di essere mandati fra i cannibali.


    Gli schiavi se la cavarono egregiamente. Pochissimi fra loro, appena quindici, vennero uccisi e divorati immediatamente. Solo dieci vennero uccisi e divorati una volta giunti al fiume. A quel punto, le cose iniziarono a non andare più secondo i piani di Arslic Oan. Ventuno schiavi, con gli otri pieni d'acqua, si diressero verso le colline. Solo otto fecero ritorno al castello, principalmente perché il gruppo venne bloccato dai cannibali. Si trattava di una percentuale di superstiti molto più alta di quella prevista, ma Arslic Oan si sentì giustamente oltraggiato dalla mancanza di lealtà.


    Dai bastioni, gridò agli schiavi: "Siete proprio sicuri di non voler fuggire, invece?"


    Alla fine li fece entrare. Tre erano stati uccisi mentre attendevano che i cancelli si aprissero. Altri due, appena messo piede nel cortile. Uno delirava, girando in cerchio, ridendo e ballando prima di cadere improvvisamente a terra. Quindi c'erano cinque otri d'acqua per quattro persone: i due schiavi superstiti, Arslic Oan e Gorkith. In quanto signore del maniero, Arslic Oan prese per sé l'otre in più, ma fu democratico riguardo agli altri.


    "Avevi ragione", lo schernì Garaz. "La storia si fa sempre più raccapricciante".


    Hallgerd sorrise e rispose: "Aspetta e vedrai".


    Il mattino successivo, Arslic Oan si risvegliò in una roccaforte totalmente immobile e silenziosa. Non c'erano voci nei corridoi, né rumori dei lavoratori nel cortile. Si vestì e diede un'occhiata in giro. La fortezza sembrava vuota. Scese negli alloggi del corazziere, ma la porta era chiusa a chiave.


    "Apri la porta, dobbiamo parlare", disse pazientemente. "Trenta schiavi su cinquantaquattro sono riusciti a raggiungere il fiume e a riempire gli otri d'acqua. Certo, alcuni sono fuggiti e un paio sono morti perché ho dovuto punire la loro volubilità. Ciononostante, è una percentuale di successo del cinquantacinque percento. Se io, te e i due schiavi rimasti ci rechiamo personalmente al fiume, noi due dovremmo sopravvivere".


    "Zilian e Gelo se ne sono andati durante la notte, portando con sé le loro armature", rispose Gorkith in lacrime da dietro la porta.


    "E chi sono Zilian e Gelo?"


    "Gli ultimi due schiavi! Ora non ne abbiamo più!"


    "Che seccatura. Però dobbiamo andare avanti. Matematicamente..."


    "Ieri notte ho sentito qualcosa", piagnucolò Gorkith con uno strano tono di voce. "Come dei passi... ma erano diversi dal solito e si muovevano attraverso i muri. C'erano anche delle voci. Erano strane, come se non riuscissero a muovere bene la mandibola. Però ne ho riconosciuta una".


    Arslic Oan sospirò e assecondò il suo povero corazziere: "E di chi era?"


    "Di Ponik".


    "E chi è Ponik?".


    "Uno degli schiavi morti quando i nord hanno avvelenato la nostra acqua. Uno dei tanti che sono morti... e che abbiamo riutilizzato. Era sempre stato un tipo piacevole, non si lamentava mai. Per questo ho riconosciuto la sua voce". Gorkith iniziò a singhiozzare. "Ho sentito quello che diceva".


    Dopo un altro sospiro, Arslic Oan chiese: "E cosa ha detto?".


    Gorkith gridò: "Ridatemi le mie ossa!". Per un momento ci fu solo il silenzio, seguito da altri singhiozzi isterici.


    "Lo sapevo!", disse Xiomara ridendo.


    Hallgerd riprese il racconto, leggermente infastidito dalle continue interruzioni... In quel momento, il corazziere non poteva essere d'aiuto. Quindi Arslic Oan spogliò dell'armatura uno degli schiavi morti e la indossò. Si allenò nel cortile, stupendosi della sua bravura con le armature di peso medio. Per ore sferrò pugni, fece finte, schivò, scattò, saltò e fece un sacco di capriole. Quando fu stanco, si ritirò all'ombra e schiacciò un pisolino.


    Venne svegliato di soprassalto dal suono della tromba del re. Era calata la notte e, per un istante, credette di aver sognato. Poi sentì nuovamente l'allarme, lontano ma inconfondibile. Saltò in piedi e corse ai bastioni. A molti chilometri di distanza, riusciva a scorgere gli emissari che si avvicinavano, accompagnati dalla scorta ben armata. Erano arrivati in anticipo! In basso, i nord cannibali si scambiarono occhiate di sconforto Per quanto selvaggi, sapevano riconoscere quando si avvicinava un esercito superiore.


    Colmo di gioia, Arslic Oan scese le scale di corsa fino agli alloggi di Gorkith. Bussò alla porta, ancora chiusa a chiave. Provò con le lusinghe, gli ordini e le minacce, inutilmente. Finalmente trovò una chiave: uno dei pochi frammenti di metallo a sopravvivere alla fusione di qualche giorno prima.


    Gorkith sembrava addormentato ma, avvicinandosi, Arslic Oan notò che aveva occhi e bocca spalancati e le braccia piegate dietro la schiena in una posa innaturale. A un esame ravvicinato, risultò essere indubbiamente morto. Come se non bastasse, il volto e il corpo erano svuotati come una vescica di maiale.


    Un rumore attraversò le pareti, come di passi ma... soffocati. Mantenendo un equilibrio perfetto, Arslic Oan si voltò con abilità ed eleganza per affrontare la minaccia.


    Dapprima non vide altro che una bolla che si gonfiava attraverso una crepa nel muro. Man mano che la sostanza gelatinosa color carne aumentava di volume, assumeva sempre più chiaramente i contorni di un volto. Un viso flaccido, quasi informe, con la fronte bassa e una lasca mandibola sdentata. Il resto del corpo, un sacco molle di muscoli e sangue, colò dalla crepa. Alle spalle e di fianco ad Arslic Oan c'era del movimento: altri schiavi fuoriuscivano dalle fessure nelle mura. Ormai erano tutt'intorno, con le braccia protese verso di lui.


    Ponik gemette, con la lingua che rotolava nella mandibola pendula: "Ridaccele! Ridacci le nostre ossa!"


    Arslic Oan iniziò a strapparsi l'armatura d'ossa fuse, gettandone i pezzi a terra. Un centinaio di figure informi, forse più, si riversarono nella piccola stanza.


    "Non basta".


    Quando gli emissari del re raggiunsero i cancelli della roccaforte, i cannibali erano spariti. I dignitari non erano ansiosi di essere ricevuti. Avevano pensato fosse meglio iniziare le visite partendo dal nobile peggiore, in modo da finire il viaggio piacevolmente. Suonarono l'allarme ancora una volta, ma i cancelli non si aprirono. Dall'interno della fortezza di Arslic Oan non proveniva alcun rumore.


    Impiegarono alcune ore a entrare. Se gli emissari non avessero portato con sé un acrobata professionista per farsi intrattenere, ci sarebbe voluto più tempo. Il posto sembrava abbandonato. Cercarono in ogni stanza, finché finalmente raggiunsero quella del corazziere.


    Lì trovarono il signore del maniero, ripiegato con cura con le gambe dietro la nuca e le braccia dietro le gambe... come una veste pregiata. Nel suo corpo non c'era nemmeno un osso.


    Xiomara urlò: "La prima parte della tua storia non aveva alcun senso, ma ora è del tutto inconcepibile. Com'è possibile che le armature d'ossa fuse siano state ricreate, se il corazziere che le aveva inventate è morto prima di tramandare ad altri i suoi segreti?"


    "Ho detto che questa è la storia di come sono state inventate... non di come la gente ha imparato a produrle".


    "E quando è stato che qualcuno ha insegnato per la prima volta ad altri a produrle?", chiese Garaz.


    "Questa, amici miei...", rispose Hallgerd, con un sorriso sinistro, "è una storia per un'altra serata".
     
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  7. Varil

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    Come Orsinium Passò agli Orchi
    di Menyna Gsost

    Correva l'anno 3E 399 e sul versante di una montagna che dominava l'ampio lembo di terra tra Menevia e Wayrest si ergeva la figura di un potente e colto giudice, arbitro e magistrato, imparziale nella sua devozione alla legge.

    "Avete ogni diritto di rivendicare questa terra, ragazzo mio", disse il giudice. "Su questo non voglio mentirvi. Tuttavia il vostro rivale ha ugual diritti su di essa. Questo è ciò che rende la mia particolare professione alquanto difficile a volte".

    "E voi lo chiamereste mio rivale?", replicò sarcasticamente Lord Bowyn, facendo un cenno verso l'orco. La creatura, il cui nome era Gortwog gro-Nagorm, sollevò lo sguardo con fare minaccioso.

    "Possiede una vasta documentazione per rivendicare diritti su quella terra", disse il magistrato stringendosi nelle spalle. "E in particolare le leggi della nostra terra non discriminano razze specifiche. Abbiamo avuto perfino un reggente bosmer una volta, molte generazioni fa".

    "E se un maiale o un pesce macellaio si facessero avanti e rivendicassero il loro diritto di proprietà? Forse avrebbero i miei stessi diritti?".

    "Qualora presentassero i documenti necessari, temo proprio di sì", sorrise il giudice. "La legge è molto chiara in merito. Nel caso in cui le parti aventi uguali diritti sulla proprietà giungessero a un punto morto nelle trattative, si renderebbe necessario un duello. Ora, le regole sono effettivamente piuttosto antiche, ma ho avuto modo di esaminarle e ritengo che siano ancore valide. Il consiglio imperiale concorda con me".

    "Dunque, cosa dovremmo fare?", chiese l'orco con tono grave e aspro, non avvezzo alla lingua dei cyrodilici.

    "Il primo contendente, vale a dire voi Lord Gortwog, potrà scegliere la corazza e l'arma da usare in duello. L'altro contendente, nella fattispecie voi Lord Bowyn, potrà scegliere il luogo del duello. Se preferite, entrambi avrete la possibilità di scegliere un vostro paladino oppure di duellare personalmente".

    Il bretone e l'orco si scrutarono, ponderando varie ipotesi. Infine, Gortwog disse: "La corazza sarà orchesca e le armi saranno spade lunghe d'acciaio comune. Nessun incantesimo. La magia non è ammessa".

    "L'arena sarà la corte centrale del palazzo di mio cugino Lord Berylth a Wayrest", disse Bowyn guardando Gortwog negli occhi con fare sprezzante. "Non sono ammessi testimoni della vostra razza".

    Così è deciso. Gortwog dichiarò che avrebbe combattuto in prima persona e Bowyn, che era giovane e in ottima forma fisica, si sentì in dovere di mantenere alto il suo onore, combattendo egli stesso a sua volta. Tuttavia, giunto al palazzo di suo cugino una settimana prima della data prevista per il duello, sentì il bisogno di esercitarsi. Venne comprata una corazza orchesca completa per l'occasione e, per la prima volta nella sua vita, Bowyn indossò qualcosa di tremendamente pesante e scomodo.

    Bowyn e Berylth diedero inizio al combattimento. Dopo dieci minuti, Bowyn dovette fermarsi. Era rosso in viso e senza fiato, tale era lo sforzo per muoversi con quella corazza addosso. Per di più, non aveva inferto alcun colpo al cugino, mentre lui aveva subito almeno una dozzina di fendenti.

    "Non so cosa fare", disse Bowyn durante la cena. "Anche se conoscessi qualcuno che sappia combattere adeguatamente chiuso in quel massacrante ammasso d'acciaio, non potrei mai mandare un mio paladino a duellare con Gortwog".

    Berylth comprendeva le sue ansie. Mentre i servitori raccoglievano i piatti dalla tavola, d'un tratto Bowyn si alzò in piedi e indicò uno di loro. "Non mi avevi detto che c'era un orco nella tua residenza!".

    "Signore?", rispose l'anziano servo cercando lo sguardo di Lord Berylth, certo di aver arrecato offesa in qualche maniera.

    "Intendi il vecchio Tunner?", disse Berylth ridendo. "E' a servizio nella mia residenza da un'intera vita ormai. Vorresti che t'insegnasse lui a muoverti in una corazza orchesca?".

    "Vorreste davvero che lo facessi?", chiese Tunner ossequiosamente.

    Sebbene Berylth non ne fosse a conoscenza in quel momento, il suo servitore aveva fatto parte della leggendaria Legione Maledetta di Alta Roccia. Non soltanto era in grado di combattere in una corazza orchesca, ma aveva persino addestrato altri orchi prima di ritirarsi per dedicarsi al servizio domestico. Disperato, Bowyn lo ingaggiò immediatamente come allenatore a tempo pieno.

    "Vi sforzate troppo, signore", disse l'orco il primo giorno nell'arena. "E' facile affaticarsi sotto il peso delle maglie d'acciaio. Le giunture sono costruite per permettere di piegarsi con il minimo sforzo. Se combattete contro di esse, non avrete forza sufficiente per combattere contro il vostro nemico".

    Bowyn provò a seguire le istruzioni di Tunner, ma ben presto fu vinto dalla frustrazione. E quanto più aumentava la sua frustrazione, tanto più intenso era il suo sforzo e ciò non faceva altro che affaticarlo ulteriormente. Quando fecero una pausa per bere un po' d'acqua, Berylth parlò con il suo servitore. Se anche fossero stati ottimisti sulle possibilità di Bowyn, le loro espressioni non lo davano a vedere.

    Tunner allenò Bowyn duramente nei due giorni che seguirono, ma il compleanno di sua signoria Elysora giunse di lì a poco e Bowyn partecipò alla festa con entusiasmo. Salsa di papaveri con grasso d'anatra e Tinsh di gallo con issopo imburrato come antipasto; luccio arrosto, combwort e polpette di carne di coniglio come secondo piatto; fettine di lingua di volpe, pasticcio di ballom con salsa di ostrica, erbette di battaglir e fagioli come portata principale; gelato di collequiva e frittelle dolci come dessert. Più tardi, come Bowyn si mise comodo per riposare, scorse d'improvviso Gortwog e il giudice entrare nella stanza.

    "Cosa fate qui?", tuonò. "Mancano ancora due giorni al duello!".

    "Lord Gortwog ha chiesto di anticiparlo a stasera", disse il giudice. "Vi stavate allenando quando il mio emissario giunse due giorni fa, ma sua signoria vostro cugino parlò per voi, concordando per lo spostamento della data".

    "Ma non ho neppure il tempo di radunare i miei sostenitori", si lamentò Bowyn. "Inoltre ho appena divorato una tale quantità di cibo da uccidere un uomo più esile di me. Cugino, come hai potuto dimenticare di dirmelo?".

    "Ne ho parlato con Tunner", disse Berylth arrossendo, non avvezzo all'inganno. "Abbiamo deciso che sarebbe stato meglio per te combattere in queste condizioni".

    Al duello nell'arena era presente un pubblico assai ridotto. Saturo di cibo, per Bowyn era impossibile muoversi velocemente. Con sua grande sorpresa, la corazza si adattava perfettamente alla sua lentezza nei movimenti, ruotando dolcemente ed elegantemente a ogni suo oscillazione. Quanto più riusciva a muoversi liberamente, tanto più le sue azioni difensive e offensive erano controllate dalla sua mente e non dal suo corpo. Per la prima volta nella sua vita, Bowyn capì cosa significasse vedere attraverso l'elmo di un orco.

    Naturalmente perse, e piuttosto male in verità, se vi fosse stato qualcuno a tenere il punteggio. Gortwog era un maestro in simili duelli. Ma Bowyn combatté per più di tre ore prima che il giudice dichiarasse con riluttanza il vincitore.

    "Darò a quella terra il nome di Orsinium dal nome della terra dei miei padri", disse il vincitore.

    Il primo pensiero di Bowyn fu che avendo perso contro un orco, era stata una fortuna che molti dei suoi amici e familiari non fossero presenti. Mentre abbandonava la corte per andare a coricarsi come tanto aveva agognato fin dalle prime ore della serata, vide Gortwog parlare con Tunner. Sebbene non comprendesse la loro lingua, dedusse che si conoscevano. Quando il bretone fu nel suo letto, ordinò a un servitore di chiamare il vecchio orco al suo cospetto.

    "Tunner", disse gentilmente. "Parlatemi con franchezza. Voi desideravate che vincesse Lord Gortwog".

    "E' vero", disse Tunner. "Ma non vi ho ingannato. Avete combattuto assai meglio di quanto avreste fatto tra due giorni, mio signore. Non avrei mai voluto che Orsinium venisse conquistata dal suo re senza un combattimento".
     
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  8. Varil

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    La Speranza dei Redoran

    di Turiul Nirith


    Una delle poche arti magiche che gli Psijic di Artaeum hanno tenuto per sé, a differenza delle scuole e degli incantesimi comuni della Gilda dei Maghi, è il dono della divinazione. Nonostante questo, o forse proprio per questo, i segni e le profezie abbondano a Tamriel, alcuni sono verosimili e altri talmente ambigui da non essere verificabili. Inoltre, ci sono altre profezie tenute segrete tra cui quelle del Dro'Jizad a Elsweyr e del Nerevarine a Morrowind, e le Antiche pergamene stesse.

    Nella nobiltà nord è tradizione fare leggere i presagi dei propri figli e solitamente si tratta di letture piuttosto oscure. Per esempio, un mio conoscente mi ha riferito che ai suoi genitori fu detto che la loro bambina sarebbe stata salvata da un serpente e proprio per questo decisero di ribattezzarla Serpentkin con una cerimonia speciale. In effetti, questa giovane donna, Eria Valkor Serpentkin, fu salvata da un serpente molti anni dopo, quando un assassino che si stava avvicinando di soppiatto mise un piede su una vipera danswyrm.

    Occasionalmente, i presagi sembrano essere fuorvianti di proposito, come se Boethiah li stesse utilizzando alla stregua di trappole. Ne ricordo uno in particolare. Molti, molti anni fa, un bimbo maschio nacque nella casata Redoran. Fu un parto molto difficile e alla fine la madre era delirante e in fin di vita. Quando il figlio venne al mondo, cantò quanto segue e passò a miglior vita.

    La fortuna ci ha sorriso in questo giorno
    Mio figlio sarà grande nella mente e con le armi
    Porterà la speranza alla casata Redoran
    Né incantesimi né lame potranno ferirlo
    Né malattie né veleni potranno nuocergli
    Il suo sangue non verrà mai versato

    Il ragazzo, di nome Andas, era in effetti straordinario. Mai si ammalò o fu ferito durante tutta la sua infanzia. Era anche piuttosto forte e intelligente, cose che, combinate con la sua invulnerabilità, fecero sì che molti lo chiamassero, secondo la profezia di sua madre, la Speranza dei Redoran. Naturalmente, con un nomignolo del genere chiunque tende a sviluppare una punta di impertinenza e non trascorse molto prima che si facesse dei nemici.

    Il suo peggior nemico era suo cugino Athyn, che aveva subito molti abusi per mano di Andas. Il rancore più grande nasceva dal fatto che era stato mandato a Rihad per completare la sua educazione per via delle pressioni di Andas. Quando Ahtyn fece ritorno da Hammerfell, fu per la morte del padre, uno dei precedenti consiglieri della casata. Athyn era abbastanza maturo da occupare il posto nel consiglio ma Andas voleva il seggio per sé, affermando che suo cugino era stato troppo a lungo lontano da Morrowind e non capiva altrettanto bene la politica. La maggioranza della casata concordò con Andas per favorire la rapida ascesa della Speranza dei Redoran.

    Athyn esercitò il suo diritto di combattere con il cugino per il seggio. Nessuno credeva che avesse qualche probabilità di vincere, naturalmente, e l'inizio della battaglia era previsto per il mattino successivo. Durante la nottata, Andas andò a donne, cenò e bevette con i consiglieri, certo che il suo seggio fosse assicurato e per la casata Redoran stesse per sorgere una nuova alba. Ahtyn si ritirò nel suo castello con i suoi amici, i nemici di Andas e i servi che aveva portato da Hammerfell.

    Ahtyn e i suoi amici stavano discutendo cupamente del duello quando uno dei suoi vecchi insegnanti, una guerriera chiamata Shardie, entrò nella sala. Era diventata piuttosto orgogliosa del suo studente negli anni trascorsi a Hammerfell, talmente orgogliosa da scortarlo attraverso l'Impero fino alla sua terra natia. Chiese come mai nutrissero così poca fiducia nelle sue speranze per la battaglia. Le spiegarono le doti sovrannaturali di Andas e la natura della premonizione di sua madre.

    "Se non può essere ferito da malattie, veleno, magicka e il suo sangue non può essere versato, che speranza ho di sconfiggerlo?", si lamentò Athyn.

    "Non ricordi nulla di quello che ti ho insegnato?", rispose Shardie. "Non conosci alcuna arma in grado di uccidere senza versare sangue? Spade e lance e frecce sono gli unici oggetti nel tuo arsenale?".

    Athyn capì subito di che arma stesse parlando Shardie, ma gli sembrò assurdo. Non solo assurdo, ma patetico e primitivo. Eppure, era l'unica speranza che aveva. Per tutta la notte, Shardie lo allenò nelle arti e nelle tecniche, mostrandogli i numerosi colpi e le posizioni ideate dalla sua gente ad Albion-Gora, i contrattacchi, le finte, le parate importate da Yokuda e la presa classica e a due mani per l'arma più antica della storia.

    I cugini si incontrarono il mattino seguente e mai prima di allora due combattenti erano sembrati così poco alla pari. L'ingresso di Andas fu seguito da grandi applausi, non solo perché era molto amato come la Speranza dei Redoran, ma come se la sua vittoria fosse una conclusione prestabilita: erano in molti a volersi mantenere in buoni rapporti con lui. La sua corazza scintillante e la sua spada suscitavano scalpore e meraviglia. Al contrario, la comparsa di Athyn causò un sussulto di sorpresa e pochi applausi educati: era abbigliato e armato come un barbaro.

    Come aveva suggerito Shardie, Athyn lasciò che Andas attaccasse per primo. La Speranza dei Redoran era impaziente di finire la battaglia e reclamare subito il potere che gli spettava. La lama guidata dal possente braccio di Andas ferì lievemente il petto di Athyn, ma prima che potesse sferrare il colpo di ritorno, Athyn la respinse con la sua arma. Quando Athyn attaccò Andas ferendolo, la Speranza dei Redoran fu talmente sorpreso dalla sua prima ferita che fece cadere la spada.

    Meno si dice riguardo alla fine della battaglia e meglio è. Basti dire che Athyn, maneggiando una semplice clava, percosse Andas a morte senza versare una goccia di sangue.

    Athyn occupò il posto di consigliere di suo padre e da quel momento si iniziò a vociferare che la "speranza" del presagio fosse riferita a lui e non ad Andas. Dopotutto, se Andas non avesse tentato di sottrarre il posto di consigliere a suo cugino, Athyn, tutt'altro che ambizioso, non l'avrebbe mai reclamato. Immagino che questo sia un altro modo di vedere la cosa.
     
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  9. Varil

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    L'Importanza del Dove

    Antiche Leggende Dwemer, Parte III
    Di Marobar Sul

    Il condottiero di Othrobar riunì i suoi saggi e disse: "Ogni mattina il mio gregge viene trovato decimato. Qual è la causa?".

    Fangbith il signore della guerra disse: "Forse un mostro discende la montagna a divorare il vostro gregge".

    Ghorick il guaritore disse: "Forse si può dare la colpa a una nuova e strana malattia".

    Beran, il sacerdote, disse: "Dobbiamo offrire sacrifici al dio perché ci risparmi".

    I saggi offrirono sacrifici e mentre erano in attesa di una risposta dal dio, Fangbith si recò dal mentore Joltereg e disse: "Mi avete insegnato bene come forgiare la Mazza di Zolia e come adoperarla in battaglia, ma ora devo sapere quando è prudente usare la mia abilità. Dovrei forse attendere una risposta del dio o che la medicina faccia effetto, oppure è preferibile che mi rechi a caccia del mostro che so trovarsi sulla montagna?".

    "Il quando non importa", disse Joltereg. "E' il dove ciò che conta".

    Così Fangbith afferrò la sua Mazza di Zolia e attraversò la cupa foresta fino ad arrivare ai piedi della grande montagna. Là s'imbatté in due mostri. Uno, sporco del sangue del gregge del condottiero di Othrobar, combatté contro di lui mentre il suo compagno fuggì. Fangbith ricordò cosa gli aveva insegnato il maestro, che il dove era tutto ciò che contava.

    Colpì il mostro in ciascuno dei suoi cinque punti vitali: testa, inguine, gola, schiena e torace. Cinque colpi ai cinque punti e il mostro rimase ucciso. Era troppo pesante per portarlo con sé, ma ancora esultante Fangbith tornò a Othrobar.

    "Vi dico che ho ucciso il mostro che ha mangiato il vostro gregge", gridò.

    "Quale prova recate di aver ucciso un mostro?", chiese il condottiero.

    "Vi dico che ho salvato il gregge con la mia medicina", disse Ghorick il guaritore.

    "Vi dico che il dio ha risparmiato il gregge grazie ai miei sacrifici", disse Beran il sacerdote.

    Passarono due mattinate e le greggi erano salve, ma la mattina del terzo giorno, il gregge del condottiero fu nuovamente decimato. Ghorick il guaritore andò nel suo studio per scovare un'altra medicina. Beran il sacerdote preparò altri sacrifici. Fangbith afferrò nuovamente la sua Mazza di Zolia e attraversò la cupa foresta fino ad arrivare ai piedi della grande montagna. Qui s'imbatté nell'altro mostro, sporco del sangue del gregge del condottiero di Othrobar. Combatterono e di nuovo Fangbith si ricordò quello che gli aveva insegnato il suo maestro, che il dove è tutto ciò che contava.

    Colpì per cinque volte il mostro alla testa e questi fuggì. Inseguendolo per la montagna, lo colpì per cinque volte all'inguine e questi fuggì. Correndo attraverso la foresta, Fangbith raggiunse il mostro e lo colpì per cinque volte alla gola ma questi fuggì. Entrando nei campi di Othrobar, Fangbith raggiunse il mostro e lo colpì per cinque volte alla schiena ma questi fuggì. Ai piedi della fortezza, il condottiero e i suoi saggi apparvero, udendo i lamenti del mostro. Lì scorsero il mostro che aveva ucciso il gregge del condottiero. Fangbith colpì per cinque volte il mostro al torace e riuscì a ucciderlo.

    Si tenne una grande festa in onore di Fangbith e il gregge di Othrobar non venne più decimato. Joltereg abbracciò il suo allievo e disse: "Alla fine hai imparato l'importanza di dove infliggere i tuoi colpi".


    Nota dell'editore:
    Questo è un altro racconto che ha evidente origine fra le tribù native delle Ashland di Vvardenfel ed è una delle loro più antiche leggende. Marobar Sul cambiò semplicemente i nomi dei personaggi per renderli più naneschi e lo rivendette come parte della sua raccolta. La grande montagna nel racconto è chiaramente la Montagna Rossa, nonostante sia descritta come coperta da una rigogliosa foresta. La caduta delle stelle e le successive eruzioni distrussero la vegetazione sulla Montagna Rossa, conferendole quell'aspetto desolato che ha oggi.

    Questa storia riveste qualche interesse per gli studiosi, in quanto presenta una primitiva cultura dei nativi delle Ashland, ma parla della vita in fortezze molto simili a quelle diroccate di Vvardenfel. Ci sono inoltre dei riferimenti a una fortezza di Othrobar, in un qualche luogo fra Vvardenfel e Skyrim, ma poche roccaforti all'infuori degli stanziamenti sparsi di Vvardenfel si sono conservate fino a oggi. Gli studiosi non sono concordi su chi abbia costruito queste fortezze, ma ritengo ovvio, da questa storia e da altre prove, che le tribù native delle Ashland utilizzavano queste fortezze nei tempi passati anziché costruire accampamenti di capanne di paglia come fanno oggi.

    Il gioco di parole che costituisce la lezione della favola... che è così importante sapere dove il mostro deve essere ucciso, alla fortezza, come sapere dove il mostro deve essere colpito per essere ucciso... è tipico di molte leggende dei nativi delle Ashland. Gli indovinelli, persino quelli semplici come questo, piacciono sia ai nativi delle Ashland che agli scomparsi dwemer. Sebbene i dwemer siano di solito rappresentati come coloro che pongono gli indovinelli, piuttosto che quelli che li risolvono, come nelle leggende dei nativi delle Ashland.
     
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  10. Varil

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    Crepuscolo su Sentinel
    Di Boali

    Non si udiva alcuna musica provenire dalla Taverna Senza Nome a Sentinel, e a dire la verità si udiva ben poco, a parte il mormorio discreto e cauto della conversazione, il suono morbido dei passi della taverniera sulla pietra e il delicato deglutire degli avventori abituali, intenti a bere con lo sguardo fisso nel nulla. Se ognuno non fosse stato occupato a fare altro, la vista della giovane Redguard avvolta in un magnifico mantello nero di velluto li avrebbe sicuramente sorpresi. Persino insospettiti. La strana figura, completamente fuori posto in un luogo sotterraneo così modesto da non avere nemmeno l'insegna, si confuse nell'ombra.

    "Siete voi Jomic?".

    Il grasso individuo di mezz'età con un volto che mostrava più anni di quanti ne avesse sollevò lo sguardo e annuì. Tornò alla sua bevanda. La giovane prese posto accanto a lui.

    "Il mio nome è Haballa", disse e tirò fuori una piccola borsa d'oro posandola accanto alla sua tazza.

    "Ovviamente", grugnì Jomic e incrociò di nuovo il suo sguardo. "Chi volete morto?".

    La donna non distolse lo sguardo ma chiese semplicemente, "E' sicuro parlarne qui?".

    "Qui a nessuno importa niente dei problemi degli altri. Potreste togliervi la corazza e danzare a seno nudo sul tavolo e nessuno vi mostrerebbe interesse", disse l'uomo sorridendo. "Chi volete morto?".

    "In effetti, nessuno", disse Haballa. "La verità è che vorrei solo che una persona venisse... allontanata per un po'. Senza farle alcun male, capite, ecco perché ho bisogno di un professionista. Mi siete stato vivamente raccomandato".

    "Con chi avete parlato?", chiese Jomic annoiato tornando a bere.

    "Un amico di un amico di un amico di un amico".

    "Uno di questi amici non sa cosa dice", borbottò l'uomo. "Non faccio più certe cose".

    Haballa tirò fuori un altro sacchetto d'oro e poi un altro ancora, posandoli accanto al gomito dell'uomo. La guardò per un istante, poi versò l'oro sul tavolo e iniziò a contare. Mentre lo faceva, chiese: "Chi volete che allontani?".

    "Solo un attimo", disse con un sorriso Haballa scuotendo la testa. "Prima di parlare di dettagli, voglio garanzie che siate un professionista e che non farete male più del necessario a questa persona. E che sarete discreto".

    "Volete che sia discreto?", l'uomo smise per un attimo di contare. "Va bene, allora vi racconterò di un lavoro che portai a termine tempo fa. E' accaduto... per Arkay, stento a crederci... più di vent'anni fa e nessuno che ebbe a che fare con questo lavoro è sopravvissuto tranne me. Risale ai tempi della Guerra di Betony, ricordate?".

    "Ero solo una bambina".

    "Certo che lo eravate", disse Jomic sorridendo. "Tutti sanno che re Lhotun aveva un fratello maggiore Greklith che morì, giusto? Aveva anche una sorella maggiore Aubki, che aveva sposato il re di Daggerfall. Ma la verità è che aveva due fratelli maggiori".

    "Davvero?", gli occhi di Haballa brillavano d'interesse.

    "Giuro", disse l'uomo riprendendo fiato. "Un tipo gracile, allampanato, di nome Arthago, il primogenito del re e della regina. A ogni modo, questo principe era l'erede al trono, cosa che non faceva impazzire i genitori di gioia, ma poi la regina sfornò altri due principi che sembravano parecchio più in forma. Fu allora che io e miei uomini venimmo assoldati, per far credere che il primo principe fosse stato portato via dal Viceré o una storia simile.

    "Non ne avevo idea!", sussurrò la giovane.

    "Certo che no, è proprio questo il punto", Jomic scosse la testa. "Discrezione, come avete detto. Catturammo il ragazzo e lo gettammo in profondità in una vecchia rovina e questo è tutto. Neanche un rumore. Solo un paio di amici, un sacco e un bastone".

    "Ecco ciò che mi interessa", disse Haballa. "Tecnica. Anche il mio... amico che deve essere allontanato è piuttosto gracile, come quel principe. A cosa serve il bastone?".

    "E' uno strumento. Così tante cose che andavano bene in passato non si vedono più in giro, solo perché la gente preferisce strumenti facili da usare a quelli che funzionano bene. Lasciate che vi spieghi: ci sono settantuno principali punti di dolore nel corpo medio di un uomo. Elfi e khajiiti, essendo molto sensibili, ne hanno rispettivamente tre e quattro in più. Argoniani e sload, possono averne dai cinquantuno ai sessantasette", Jomic usò il suo tozzo dito per indicare ogni area sul corpo di Haballa. "Sei nella fronte, due nel sopracciglio, due nel naso, sette nella gola, dieci nel petto, nove nell'addome, tre in ognuna delle braccia, dodici nell'inguine, quattro nella vostra gamba preferita e cinque nell'altra".

    "Fanno sessantatré", replicò Haballa.

    "No, non è vero", protestò Jomic.

    "Le dico di sì", la giovane insistette indignata dal fatto che le sue conoscenze matematiche venissero messe in dubbio: "Sei, più due, più due, più sette, più dieci, più nove, più tre per un braccio e tre per l'altro, più dodici, più quattro, più cinque. Sessantatré".

    "Me ne sarà sfuggito uno", disse Jomic stringendosi nelle spalle. "Ciò che importa è che per diventare un maestro con la mazza o il bastone, devi prima essere un maestro di questi punti di dolore. Dato nel modo giusto, anche un colpo leggero può uccidere o far perdere i sensi lasciando solo un livido".

    "Affascinante", disse Haballa sorridendo. "E nessuno l'ha mai scoperto?".

    "E come? I genitori del ragazzo, il re e la regina sono entrambi morti. Gli altri bambini hanno sempre creduto che loro fratello fosse stato portato via dal Viceré. Questo è ciò che tutti credono. E anche tutti i miei compagni sono morti".

    "Di morte naturale?".

    "Non accade mai nulla di naturale nella baia, lo sapete bene. Uno dei tizi è stato fatto fuori da uno di quei selenu. Un altro morì della stessa piaga che colpì la regina e il principe Greklith. Un altro è stato pestato a sangue da un ladro. Devi rimanere nell'ombra, agire in segretezza, come me, se vuoi salvarti la pelle". Jomic finì di contare le monete. "Volete proprio che quest'uomo sparisca. Chi è?".

    "Meglio che ve lo faccia vedere", disse Haballa alzandosi. Senza voltarsi mai indietro, si diresse verso l'uscita della Taverna Senza Nome.

    Jomic finì la sua birra e uscì. La notte era tormentata da un instancabile vento gelido che scaturiva dalle acque della Baia di Iliac, trasformando le foglie svolazzanti in turbini di frammenti. Haballa uscì dal vicolo accanto alla taverna e gli fece segno di seguirla. Mentre le si avvicinava, la brezza sollevò il mantello della donna, mostrando la corazza e lo stemma del re di Sentinel.

    L'uomo fece un passo indietro per scappare, ma la donna era troppo veloce. In men che non si dica, si ritrovò steso a terra con il ginocchio della donna puntato fermamente alla gola.

    "Il re ha passato anni da quando è salito al trono a cercare voi e i vostri collaboratori, Jomic. Non mi ha dato precise disposizioni su cosa farvi qualora vi avessi trovato, ma penso che mi abbiate dato un'idea".

    Dalla cintura, Haballa tirò fuori una piccola ma robusta mazza.

    Un ubriaco, mentre barcollava fuori dal bar, udì un acuto lamento seguito da un sussurro delicato provenire dall'oscurità della via: "Vediamo di tenere il conto meglio questa volta. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette...".
     
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  11. Varil

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    La Terza Porta

    di Annanar Orme

    I.
    Canto di Ellabeth, fiera Regina della Scure,
    colei che un solido olmo poteva abbattere con due fendenti d'ascia.
    Avrebbe potuto squarciare Valenwood soltanto per sollazzo.
    Studiò sotto Alfhedil in Tel Aruhn.
    Da lui apprese i colpi, le mosse e la postura
    per far di un fendente d'ascia leggiadra danza.


    Da lui apprese delle dentate scuri dei fieri orchi,
    delle asce lunghe sei piedi di Winterhold,
    delle asce a lama cava degli elfi occidentali,
    che sibilano lacerando le carni.
    Con una semplice scure poteva di due uomini la testa mozzare.
    Con una scure bipenne riusciva ad abbatterne dieci e anche più.
    Eppure delle leggende odierne molto ha a che fare
    con l'uomo che il suo cuor recise in due.


    II.
    Nienolas Ulwarth il Possente, colui che venne da Blackrose,
    il solo uomo superiore a Ellabeth in quanto a scure,
    cinquanta alberi in un minuto lei tagliò, ma lui cinquantatré.
    Comprese allora che quello era il solo uomo che poteva amare.
    Ma quando Ellabeth confessò il suo sentimento, Nienolas rise divertito.
    Disse che amava ben di più della sua ascia fusto e impugnatura.
    E disse che se ciò non era abbastanza per appagare il suo desiderio,
    vi era un'altra donna di nome Lorinthyrae.
    Tremenda furia avvinse la Regina della Scure, la giovane Ellabeth
    e i suoi pensieri mutarono in fosche riflessioni di morte.
    Mephala e Sheogorath le suggerirono un piano di vendetta
    che per settimane studiò immersa in delirante sogno.
    Nel silenzio della notte rapì la sua rivale
    e quindi la scelta le indicò tra morte e vita.

    III.
    Lorinthyrae si destò in una casa nelle lande nebbiose,
    in una stanza scarsamente arredata tranne che per tre porte.
    Ellabeth le spiegò che dietro una delle porte la fanciulla
    avrebbe trovato l'amore suo e di Ellabeth, il grande Nienolas.
    Dietro la seconda viveva un feroce demone,
    dietro la terza l'uscita per la libertà.
    Doveva compiere una scelta e per aiutar la sua decisione
    se avesse meditato troppo a lungo, l'ascia avrebbe provocato una scissione.
    Lorinthyrae pianse ed Ellabeth si sentì pentita,
    allora aprì la porta vicino alla sua destra.
    Portava nelle lande nebbiose e mentre scivolava nelle tenebre
    raccomandò a Lorinthyrae di abbandonar la stanza similmente.
    Lorinthyrae la ignorò e non sentì affatto la sua volontà cedere.
    Nienolas era in gran parte dietro la prima porta che aveva aperto.

    IV.
    Ellabeth aveva mentito, non vi era alcun demonio leggendario.
    Dietro la terza porta vi era solo il terzo superiore di Nienolas.
     
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  12. Varil

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    L'Uomo con l'Ascia

    Di tutti i membri della Morag Tong con cui ho parlato, nessuno mi ha turbato quanto Minas Torik. Uomo tranquillo e riservato, astemio, mai lanciata una maledizione né frequentato un bordello, era famoso per la sua abilità di far sparire la gente. Se la confraternita prendeva di mira qualcuno e inviava Torik a risolvere la situazione, quella persona semplicemente cessava di esistere. Una volta gli ho chiesto quale fosse la sua arma preferita e la sua risposta mi ha molto allarmato.

    "Mi piacciono solo le asce", ha risposto con la solita voce tranquilla.

    L'immagine di questo tipo austero e silenzioso che attacca qualcuno con un'arma sanguinaria e violenta come un'ascia mi ha spaventato e incuriosito a tal punto da spingermi a volerne sapere di più. Si tratta di un'attività pericolosa, poiché solitamente gli assassini non sono inclini a narrare le proprie imprese. A Torik le mie domande non davano fastidio, anche se c'è voluto del tempo per cavargli di bocca tutta la storia. Era davvero un uomo timido e riservato.

    Rimasto orfano in tenera età, era stato inviato a lavorare con suo zio, il proprietario di una piantagione di salriso di Sheogorad, nella zona settentrionale di Vvardenfell. L'uomo promise di insegnare il mestiere al nipote e, quando fosse diventato abbastanza adulto, di farne il suo socio. Nel frattempo, il ragazzo venne impiegato come servo nella casa di suo zio.

    Fu una vita molto dura, poiché il vecchio era molto puntiglioso sul modo in cui si dovevano fare le cose. Dapprima, al ragazzo fu ordinato di spazzare per bene tutti i pavimenti, dalla soffitta alla cantina. Se lo zio non era soddisfatto del lavoro, cosa che accadeva di frequente, Torik veniva percosso e costretto a ricominciare da capo.

    Il secondo incarico del ragazzo era suonare la campana per chiamare a raccolta i lavoratori nella casa. Ciò avveniva almeno quattro volte al giorno, in corrispondenza dei pasti. Se però lo zio aveva qualche novità o ulteriori istruzioni da riferire ai lavoratori, cosa che accadeva di frequente, poteva essere necessario suonare la campana anche dieci volte o più. Si trattava di un'enorme cupola di ferro, situata in cima alla torre. Ben presto il giovane scoprì che doveva tirare la corda con tutto il corpo per produrre un suono abbastanza potente da richiamare tutti dai campi. Se era stanco e non riusciva a tirare con forza sufficiente, suo zio lo raggiungeva immediatamente e lo percuoteva finché il suono non era forte e chiaro.

    Il terzo incarico di Torik era spolverare tutti i ripiani nella vasta biblioteca dello zio. Essendo molto antichi e profondi, doveva usare un pesante piumino legato a un bastone. L'unico modo per raggiungere il fondo dei ripiani era tenere il bastone all'altezza della spalla e farlo oscillare. Anche in questo caso, se lo zio trovava dei residui di polvere o riteneva che il ragazzo non stesse facendo bene il proprio lavoro, la punizione era rapida e severa.

    Col passare degli anni, Minas Torik divenne un giovanotto. Eppure le sue responsabilità lavorative non crescevano di conseguenza. Suo zio aveva promesso di insegnargli il mestiere, quando Torik avesse dimostrato di padroneggiare gli incarichi da servitore. Tenuto all'oscuro su qualsiasi tipo di mansione che non fosse la sua, Torik non aveva mai saputo quanto fossero ingenti i debiti di suo zio e in quali pessime condizioni versasse la fattoria.

    Al compimento del diciottesimo anno, lo zio convocò Torik nella cantina. Il ragazzo credette di non aver lucidato a dovere il pavimento ed era spaventato al pensiero delle percosse che avrebbe ricevuto. Invece, vide suo zio riempire delle casse con i propri averi.

    "Me ne vado da Morrowind", spiegò. "Gli affari sono andati a rotoli, quindi tenterò la fortuna guidando una carovana verso Skyrim. Ho saputo che si possono fare un sacco di soldi, commerciando in falsi manufatti dwemer con i nord e i cyrodiil. Vorrei poterti portare con me, ma non avrò bisogno di lucidatori, campanari o spolveratori".

    "Ma zio...", disse Torik. "Non so leggere e non conosco nulla del mestiere che hai promesso d'insegnarmi. Come potrò cavarmela da solo?".

    "Sono certo che troverai un lavoro come servo, da qualche parte", rispose lo zio, scrollando le spalle. "Io ho fatto tutto quello che potevo".

    Torik non si era mai opposto allo zio e non provava rabbia, ma una specie di gelo che gli stringeva il cuore in una morsa. Fra gli oggetti che l'anziano parente stava riponendo nelle casse, c'era una vecchia e pesante ascia di ferro, probabilmente forgiata da un artigiano dwemer. Quando la raccolse, scoprì con stupore che non era molto più pesante del suo piumino. Anzi, la trovò estremamente comoda da usare, quando se la mise sulla spalla e poi la fece oscillare con un gesto che aveva ripetuto moltissime volte in passato. Stavolta, però, diresse il movimento verso il braccio destro dello zio.

    L'anziano gridò di rabbia e di dolore ma, per qualche motivo, Torik non aveva più paura. Appoggiò l'ascia sull'altra spalla e la fece oscillare di nuovo, aprendo uno squarcio nel petto dello zio, che cadde a terra.

    Torik esitò prima di sollevare l'ascia oltre la testa. Era un'altra posizione naturale per lui, come quando suonava la campana. Più volte fece oscillare l'ascia verso il basso, come se stesse richiamando i lavoratori dai campi. Quella volta, però, l'unico suono prodotto era un tonfo sordo e nessuno accorse dai campi. Lo zio aveva licenziato tutti qualche ora prima.

    Dopo un po', dello zio non rimaneva più niente che non potesse finire nello scolo della cantina. Anche la pulizia fu facile, per Torik: il sangue era più facile da spazzare via rispetto alla sporcizia e alla farina di salriso che solitamente insozzavano il pavimento.

    Tutti sapevano che lo zio era in procinto di abbandonare Morrowind, quindi la sua sparizione non fece sorgere alcun sospetto. La casa e tutti gli averi furono venduti per pagare i debitori. Torik tenne l'ascia per sé. Dopotutto, lo zio gli aveva insegnato davvero un mestiere utile.
     
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  13. alaris

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    Questo non ricordo di averlo mai trovato...:emoji_confused: ma forse sbaglio, controllo nella libreria del museo
     
  14. Varil

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    C'è, forse non ha un espositore nel Museo ma il libro c'è in Morrowind e in Skyrim
     
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  15. alaris

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    Espositore no ma ho messo un sacco di libri negli armadi all'ultimo piano della libreria...controllerò
     
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  16. Varil

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    Il Seme

    Antiche Leggende Dwemer, Parte II
    Di Marobar Sul

    Il piccolo villaggio di Lorikh era una tranquilla e pacifica comunità di dwemer nascosta nel monotono paesaggio di dune rossicce e massi grigiastri del Dejasyte. Nessun tipo di vegetazione cresceva a Lorikh, sebbene vi fossero resti di imponenti alberi morti e anneriti sparsi per la città. Kamdida, arrivando con una carovana guardò la sua nuova casa con disperazione. Era abituata alle foreste del nord dove la famiglia di suo padre si era ritirata. Quel luogo offriva poca acqua e un grande cielo aperto, senza alcuna ombra. Appariva come una landa desolata.

    La famiglia di sua madre accolse Kamdida e il fratellino Nevith, e fu molto gentile nei confronti dei due orfani, ma lei si sentiva sola in quel villaggio straniero. Finché non incontrò un'anziana argoniana che lavorava presso la fabbrica dell'acqua: in lei Kamdida trovò un'amica. Il suo nome era Sigerthe e diceva che la sua famiglia aveva vissuto a Lorikh per secoli prima dell'arrivo dei dwemer, quando ancora era una vasta e rigogliosa foresta.

    "Perché gli alberi sono morti?", chiese Kamdida.

    "Quando in queste terre vivevano solo argoniani, non tagliavamo mai gli alberi poiché non avevamo necessità di combustibile o di costruire strutture di legno come quelle che usate voi. Quando arrivarono i dwemer, permettemmo loro di usare le piante a loro piacimento, purché non toccassero mai gli hist, che erano sacri per noi e per la terra. Per molti anni vivemmo in pace. Nessuno desiderava niente".

    "Cosa accadde?".

    Alcuni dei nostri scienziati scoprirono che distillando una certa linfa degli alberi, lavorandola e seccandola, potevano creare un tipo di corazza elastica chiamata resina", disse Sigerthe. "La maggior parte degli alberi che crescevano qui avevano un sottile icore nei loro rami, ma non gli hist. Molti di questi alberi scintillavano letteralmente per la linfa, cosa che rese i dwemer mercanti avidi. Assoldarono un taglialegna di nome Juhnin per iniziare ad abbattere i sacri alberi per profitto".

    L'anziana argoniana guardò il terreno polveroso sospirando: "Naturalmente noi argoniani ci opponemmo. Era la nostra casa e gli hist, una volta andati non sarebbe mai ricresciuti. I mercanti tornarono sulle loro decisioni, ma Juhnin ne approfittò per piegare il nostro spirito. In un terribile e cruento giorno dimostrò che la sua prodigiosa abilità nell'uso dell'ascia poteva essere utilizzata anche contro le persone e non solo contro gli alberi. Ogni argoniano che incontrava sulla sua strada fu fatto a pezzi, bambini compresi. I dwemer di Lorikh si trincerarono dietro le porte chiuse per non udire le grida dell'assassino".

    "E' terribile", bisbigliò Kamdida.

    "E' difficile da spiegare", rispose Sigerthe. "Ma la morte dei nostri cari era quasi una perdita meno terribile per noi rispetto alla morte dei nostri alberi sacri. Devi capire che per il mio popolo, gli hist sono la nostra origine e la nostra meta. Distruggere i nostri corpi è niente; distruggere i nostri alberi significa annientarci totalmente. Quando Juhnin scagliò la sua ascia sugli hist, uccise la terra. L'acqua scomparve, gli animali morirono e tutte le altre forme di vita che si nutrivano degli alberi si sgretolarono e si ridussero in polvere".

    "Ma voi siete rimasta qui?", chiese Kamdida. "Perché non avete lasciato questo posto?".

    "Perché siamo intrappolati. Sono una degli ultimi sopravvissuti di un popolo che sta scomparendo. Pochi di noi sono sufficientemente forti da vivere lontano dai nostri boschi ancestrali e talvolta, perfino adesso, nell'aria si diffonde un profumo di Lorikh che ci ridona la vita. Non passerà molto tempo prima della nostra estinzione".

    Kamdida sentì le lacrime sgorgarle dagli occhi. "E così rimarrò da sola in questo posto terribile senza alberi e senza amici".

    "Noi argoniani usiamo un'espressione", disse Sigerthe con un mesto sorriso prendendo la mano di Kamdida. "Il terreno migliore per un seme si trova nel cuore".

    Kamdida si guardò nel palmo della mano e vide che Sigerthe le aveva dato una pallina nera. Si trattava di un seme. "Sembra morto".

    "Può crescere in un unico posto in tutta Lorikh", disse l'anziana argoniana. "Davanti a un vecchio cottage sulle colline fuori città. Non posso recarmici perché il proprietario mi ucciderebbe subito vedendomi e, come tutto il mio popolo, adesso sono troppo debole per difendermi. Ma tu puoi andarci e piantare il seme".

    "Che cosa accadrà?", chiese Kamdida. "Gli hist rinasceranno?".

    "No. Ma una parte del loro potere lo farà".

    Quella notte, Kamdida uscì di soppiatto da casa per recarsi sulle colline. Conosceva il cottage di cui le aveva parlato Sigerthe. I suoi zii le avevano detto di non andarci mai. Mentre si avvicinava, la porta si aprì e apparve un uomo anziano ma dall'aspetto vigoroso, con una possente ascia appoggiata sulla spalla.

    "Cosa stai facendo qui, piccola?", le chiese. "Nel buio, ti ho quasi scambiato per un uomo lucertola".

    "Mi sono persa nell'oscurità", rispose velocemente. "Sto cercando di tornare a casa a Lorikh".

    "Incamminati allora".

    "Avete una candela da darmi?", gli chiese implorante. "Ho camminato in circolo e temo che riuscirò solo a ritornare qui senza una luce".

    Il vecchio brontolò e si diresse verso casa. Rapida, Kamdida scavò un foro nella terra arida e vi piantò il seme più in profondità possibile. Il vecchio tornò con una candela accesa.

    "Vedi di non tornare", brontolò. "Altrimenti ti taglierò in due".

    L'uomo tornò al focolare. Il mattino seguente quando si svegliò e aprì la porta, scoprì che il suo cottage era completamente bloccato da un enorme albero. Sollevò la sua ascia e sferrò colpi su colpi all'albero senza successo. Provò a colpire lateralmente ma il legno dell'albero ricresceva. Provò a infliggere un colpo discendente seguito da uno ascendente per formare un cuneo, ma il legno continuava a ricrescere.

    Passò molto tempo prima che qualcuno scoprisse il corpo emaciato del vecchio Juhnin riverso davanti alla sua porta aperta, ancora intento a impugnare l'ascia smussata e spezzata. Cosa avesse cercato di tagliare rimase un mistero per tutti, ma in Lorikh iniziò a circolare una leggenda che sulla lama era stata trovata la linfa di un hist.

    Poco tempo dopo, piccoli fiori del deserto iniziarono a spuntare dalla terra inaridita della città. Alberi e piante seminate da poco iniziarono a germogliare decentemente, se non addirittura bene. Gli hist non rinacquero, ma Kamdida e gli abitanti di Lorikh notarono in un certo momento del giorno, al crepuscolo, lunghe e ampie ombre di grandi alberi del passato che ricoprivano le strade e le colline.

    Nota dell'editore:
    "Il seme" è una delle leggende di Marobar Sul le cui origini sono ben note. Questa leggenda trae le sue origini dagli schiavi argoniani del sud di Morrowind. Marobar Sul ha semplicemente sostituito dunmer con dwemer e afferma di averla trovata in una rovina dwemer. Inoltre, successivamente ha dichiarato che la versione argoniana della storia era semplicemente una copia del suo "originale"!

    Lorikh, che non è chiaramente un nome dwemer, semplicemente non esiste e infatti era un nome comunemente usato, in modo errato, per indicare gli uomini dunmer nelle opere di Gor Felim. Le versioni argoniane della storia normalmente si svolgono in Vvardenfell, nella città Telvanni di Sadrith Mora. Ovviamente i cosiddetti "studiosi" del Tempio Zero probabilmente affermeranno che questa storia ha qualcosa a che fare con Lorkhan semplicemente perché il nome della città inizia con L.
     
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  17. Varil

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    Il Riscatto di Zarek

    Antiche Leggende Dwemer, Parte I
    Di Marobar Sul

    Jalemmil era nel suo giardino e leggeva la lettera che un domestico le aveva portato. Il mazzo di rose profumate che impugnava cadde a terra. Per un attimo fu come se tutti gli uccelli avessero smesso di cantare e una nuvola fosse passata nel cielo. Il suo santuario accuratamente coltivato e ordinato sembrò sommerso dall'oscurità.

    "Abbiamo vostro figlio", recitava la lettera. "Vi contatteremo presto con la nostra richiesta di riscatto".

    In fondo Zarek non era mai andato più lontano di Akgun. Uno dei briganti sulla strada, forse orchi, o il maledetto dunmer, doveva aver visto la sua carrozza ben equipaggiata e l'aveva preso in ostaggio. Jalemmil si afferrò a un palo per sorreggersi, domandandosi se il suo ragazzo fosse ferito. Non era altro che uno studente, non il tipo da affrontare uomini ben armati, ma lo avevano picchiato? Era più di quello che il cuore di una madre poteva sopportare di immaginare.

    "Non ditemi che vi hanno spedito la lettera di riscatto così velocemente", disse una voce familiare e un viso ben noto apparve attraverso la siepe. Era Zarek. Jalemmil corse ad abbracciare il suo ragazzo e le lacrime le scorrevano sul viso.

    "Cos'è accaduto?", chiese piangendo. "Temevo che ti avessero rapito".

    "Infatti", disse Zarek. "Tre giganteschi e torreggianti Nord hanno attaccato la mia carrozza sul Passo di Frimvorn. Fratelli, come ho saputo, di nome Mathais, Ulin e Koorg. Avreste dovuto vedere quegli uomini, madre. Ognuno di loro avrebbe avuto difficoltà a passare attraverso il portone d'ingresso, credetemi".

    "Cos'è accaduto?", ripeté Jalemmil. "Sei stato liberato?".

    "Pensavo di attendere, ma sapevo che avrebbero spedito una lettera di riscatto e so quanto voi vi preoccupiate. Così mi sono ricordato che il mio mentore ad Akgun mi diceva sempre di restare calmo, osservare ciò che mi circonda e scoprire le debolezze avversarie", sogghignò Zarek. "Ma ci ho messo un po', perché quei tipi erano davvero dei mostri. E poi, dopo averli ascoltati mentre si vantavano tra loro, ho capito che la loro debolezza era la vanità".

    "Cosa avete fatto?".

    "Mi avevano incatenato nel loro accampamento in mezzo al bosco non lontano da Cael, su di un'alta collina sovrastante un grande fiume. Ho sentito uno di loro, Koorg, dire agli altri che ci sarebbe voluta quasi un'ora per attraversare a nuoto il fiume e tornare indietro. Stavano accennando di sì con il capo, quando parlai ad alta voce".

    "'Potrei attraversare quel fiume e tornare in trenta minuti", dissi.

    "'Impossibile", commentò Koorg. "Nuoto più velocemente di un marmocchio come te".

    "Concordammo che ci saremmo tuffati dalla rupe e nuotato fino all'isola centrale per poi ritornare. Quando raggiungemmo le nostre rispettive rocce, Koorg si impegnò a darmi una lezione sugli elementi fondamentali del nuoto. L'importanza dei movimenti sincronizzati di braccia e gambe per raggiungere la massima velocità. Quanto fosse fondamentale prendere fiato soltanto dopo tre o quattro bracciate, non troppo spesso per non perdere velocità, né troppo raramente da ansimare. Feci cenni col capo che avevo capito. Quindi ci tuffammo dalla rupe. Raggiunsi l'isola e tornai indietro in poco più di un'ora, ma Koorg non fece ritorno. Si era spaccato la testa sulle rocce ai piedi della rupe. Avevo notato le increspature dell'acqua create dalle rocce sommerse e per tuffarmi avevo scelto la rupe destra".

    "Ma sei tornato?", chiese Jalemmil, sbalordita. "Non è stato allora che sei fuggito?".

    "Era troppo rischioso fuggire allora", disse Zarek. "Avrebbero potuto ricatturarmi facilmente e l'idea di essere incolpato della scomparsa di Koorg non mi entusiasmava. Dissi che non sapevo cosa gli fosse accaduto e, dopo qualche ricerca, decisero che si era dimenticato della gara e che aveva nuotato fino alla terraferma a caccia di cibo. Non potevano incolparmi della sua scomparsa, ma al momento del ritorno compresi subito cos'era successo. I due fratelli cominciarono ad accamparsi lungo il bordo roccioso della scogliera, scegliendo una posizione ideale per impedirmi di fuggire".

    "Uno dei fratelli, Mathais, iniziò a fare commenti sulla qualità del terreno e sulla graduale pendenza della roccia che circondava la baia sottostante. Perfetta, diceva, per una gara podistica. Manifestai la mia ignoranza riguardo a questo sport e lui fu pronto a insegnarmi la tecnica opportuna per una gara di corsa. Fece delle smorfie ridicole, mostrando come si doveva inspirare con il naso ed espirare dalla bocca; come piegare le ginocchia con un'angolazione appropriata durante l'elevazione; l'importanza di un saldo posizionamento del piede. Cosa più importante, spiegò, era che il corridore mantenesse un ritmo energico ma non troppo faticoso se intendeva vincere. E' sufficiente correre al secondo posto durante la gara, disse, a patto che uno abbia la forza di volontà e l'energia per lo scatto finale".

    "Ero un allievo entusiasta e Mathais decise che avremmo dovuto fare una breve gara intorno all'estremità della baia prima che scendesse la notte. Ulin ci chiese di portare della legna da ardere al ritorno. Cominciammo subito a correre giù per il sentiero, costeggiando il precipizio. Seguii i suoi consigli riguardo alla respirazione, all'andatura e al posizionamento dei piedi, ma corsi con tutta la mia forza sin dall'inizio. Nonostante le sue gambe molto più lunghe, io ero alcuni passi avanti quando svoltammo il primo angolo".

    "Con gli occhi puntati sulla mia schiena, Mathais non vide l'apertura nella roccia che io avevo saltato. Precipitò giù dal dirupo prima di avere la possibilità di urlare. Passai alcuni momenti a raccogliere ramoscelli prima di tornare al campo da Ulin".

    "Allora vi stavate soltanto mettendo in mostra", disapprovò Jalemmil. "Di certo sarebbe stata un'ottima occasione per scappare".

    "Potreste pensarlo", convenne Zarek. "Ma dovevate vedere la topografia... alcuni grandi alberi e poi nient'altro che arbusti. Ulin avrebbe notato la mia assenza e mi avrebbe raggiunto in men che non si dica e avrei passato un brutto momento nel giustificare l'assenza di Mathais. Ciò nonostante, raccogliere la legna nella zona mi permise di osservare alcuni degli alberi vicini per concertare il mio piano finale".

    "Quando tornai al campo con alcuni legnetti, dissi a Ulin che Mathais era lento nel tornare perché si stava trascinando dietro un grande albero secco. Ulin si burlò della forza del fratello, dicendo che non ci avrebbe messo niente a strappare un albero dalle radici e gettarlo nel falò. Rivelai di avere qualche dubbio in proposito".

    "'Ti farò vedere", disse, sradicando un esemplare alto dieci piedi senza alcuno sforzo.

    "'Ma questo è solo un alberello", obbiettai. "Pensavo che tu potessi sradicare un albero". I suoi occhi seguirono i miei verso un magnifico albero dall'aspetto robusto al limitare della radura. Ulin lo afferrò e cominciò a scuoterlo con un'incredibile potenza per liberare le radici dal terriccio. In questo modo, staccò l'alveare dai rami più in alto facendoselo cadere sulla testa.

    "Qui fu quando riuscii a fuggire, madre", disse Zarek alla fine, mostrando un orgoglio da scolaretto. "Mentre Mathais e Koorg giacevano ai piedi della scogliera, e Ulin agitava scompostamente le braccia, circondato da uno sciame d'api".

    Jalemmil abbracciò il figlio una volta ancora.

    Nota dell'editore:
    Ero restio a pubblicare gli scritti di Marobar Sul, ma quando la Stampa dell'Università di Gwylim mi chiese di curare questa edizione, decisi di cogliere l'occasione per chiarire tutto una volta per tutte.

    Gli studiosi non sono concordi sulla data esatta delle opere di Marobar Sul, ma si è generalmente convenuto che vennero scritte dal commediografo Gor Felim, famoso per commedie popolari e romanzi fantastici durante l'Interregno fra la caduta del primo Impero cyrodilico e l'ascesa di Tiber Septim. La teoria attuale sostiene che Felim ascoltò alcuni racconti dwemer autentici e li adattò in versione teatrale al fine di far soldi, insieme a versioni rimaneggiate di molte delle sue opere.

    Gor Felim creò il personaggio di Marobar Sul che era in grado di tradurre la lingua dwemer, allo scopo di apportare una qualche validità al lavoro e di renderlo persino più pregiato agli occhi degli ingenui. Si noti che mentre Marobar Sul e i suoi scritti divennero oggetto di un'accesa controversia, non esiste alcuna documentazione attendibile su qualcuno che abbia effettivamente incontrato Marobar Sul, né che qualcuno con quel nome abbia lavorato presso la Gilda dei Maghi, la Scuola di Julianos, o qualunque altro istituto intellettuale.

    In ogni caso, i dwemer nella maggior parte dei racconti di Marobar Sul poco assomigliano alla razza terribile e imperscrutabile che intimoriva persino i dunmer, i nord e le Redguard fino all'obbedienza e che provocarono sfaceli che ancora adesso devono essere compresi.
     
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  18. Varil

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    La Freccia Nera
    Parte I

    Di Gorgic Guine

    Ero giovane quando la duchessa di Woda mi prese a servizio come valletto nel suo palazzo estivo. La mia esperienza con le abitudini dell'aristocrazia titolata era molto limitata prima di allora. Ricchi mercanti, diplomatici e ufficiali trattavano affari importanti in Eldenroot ed erano proprietari di pomposi palazzi per i ricevimenti, ma i miei parenti erano tutti lontani da quegli ambienti.

    Non avevamo un'attività familiare di cui potessi entrare a far parte, una volta raggiunta l'età adulta, ma mio cugino seppe che in una proprietà lontano dalla città cercavano servitù. Era talmente distante che difficilmente vi sarebbero stati molti candidati. Camminai per cinque giorni nella giungla di Valenwood prima di incontrare un gruppo di cavalieri che procedevano nella mia stessa direzione. Il gruppo era composto da tre uomini e una donna bosmer, due donne bretoni e un uomo dunmer, stando all'aspetto avventurieri.

    "Siete diretto anche voi a Moliva?", chiese Prolyssa, una delle donne bretoni, dopo aver fatto le presentazioni.

    "Non conosco quel posto", risposi. "Mi reco a cercare lavoro come domestico per la duchessa di Woda".

    "Vi accompagneremo al suo cancello", disse il dunmer Missun Akin, aiutandomi a salire in groppa. "Ma fareste bene a non rivelare a sua grazia che alcuni studenti di Moliva vi hanno scortato. Non se siete realmente interessato a quel lavoro".

    Akin si spiegò mentre continuavamo a cavalcare. Moliva era il villaggio più vicino alla proprietà della duchessa, dove un prode e famoso arciere si era ritirato dopo una lunga carriera militare. Il suo nome era Hiomaste e, pur essendo in pensione, aveva iniziato ad accettare studenti interessati al tiro con l'arco. Col passare del tempo, mentre la fama del grande insegnante si diffondeva, un numero sempre maggiore di studenti si presentava alla scuola per apprendere da lui. Le donne bretoni erano arrivate da ogni luogo dell'estremità occidentale di Alta Roccia. Lo stesso Akin aveva attraversato il continente, lasciando la sua casa vicina al grande vulcano nelle terre di Morrowind. Mi mostrò le frecce di ebano che aveva portato dalla sua terra natia. Non avevo mai visto nulla così nero.

    "Stando a quanto si dice", affermò Kopale, uno degli uomini bosmer, "La duchessa è una imperiale, la cui famiglia si trovava su queste terre ancor prima della creazione dell'impero, pertanto potreste pensare che sia abituata alla gente comune di Valenwood. Ma niente potrebbe essere più distante dalla verità. Disprezza il villaggio e soprattutto la scuola".

    "Suppongo che voglia controllare tutti i traffici nella sua giungla", disse ridendo Prolyssa.

    Accettai quella informazione con gratitudine e sentii crescere in me la paura per il primo incontro con l'intollerante duchessa. La prima vista del palazzo nascosto fra gli alberi non mitigò certo i miei timori.

    Era completamente diverso da qualunque edificio avessi mai visto in Valenwood. Un ampio edificio in pietra e metallo, con una fila dentellata di merlature che lo rendevano simile alle ganasce di una grande bestia. Molti degli alberi vicino al palazzo erano stati abbattuti da lungo tempo: potevo solo immaginare l'indignazione causata da quel gesto e la paura che i contadini bosmer avevano nei confronti del Ducato di Woda per averlo permesso. Sul luogo vi era un vasto fossato grigio-verde che circondava completamente il palazzo, tanto da farlo sembrare una perfetta isola artificiale. Avevo visto cose simili sugli arazzi provenienti da Alta Roccia e dalle province imperiali, ma mai nella mia terra natia.

    "Al cancello vi saranno le guardie, pertanto vi lasceremo qui", disse Akin, fermando il cavallo lungo la strada. "Sarà meglio per voi se non vi associano alla nostra presenza".

    Ringraziai i miei compagni di viaggio e augurai loro buona fortuna per il corso. Continuarono a cavalcare e io proseguii a piedi. Dopo pochi minuti, mi trovavo di fronte al cancello, che notai essere collegato a un'inferriata alta e riccamente ornata, a protezione del perimetro. Quando il guardiano al cancello capì che intendevo presentarmi per un posto di domestico, mi fece entrare e segnalò a un'altra guardia sul prato di abbassare il ponte levatoio per consentirmi di superare il fossato.

    Vi era un'ultima misura di sicurezza: il portone d'ingresso. Una mostruosità di ferro, con lo stemma dei Woda in alto, rinforzato da altre sbarre di ferro e una serratura dorata. L'uomo di guardia al portone, lo aprì per lasciarmi entrare nell'immenso e tetro palazzo in pietra grigia.

    Sua grazia mi ricevette nella sala. Era esile e rugosa come un rettile, avvolta in un semplice abito lungo e rosso. Era ovvio che non sorrideva mai. Il colloquio durò il tempo di un'unica domanda.

    "Sapete qualcosa riguardo all'essere un apprendista valletto al servizio di una nobildonna imperiale?". La sua voce risuonava come pelle invecchiata.

    "No, vostra grazia".

    "Bene. Nessun servitore sa mai cosa si deve fare e io nutro una particolare avversione verso coloro che credono di saperlo. Siete assunto".

    La vita a palazzo era mesta, ma la posizione di un apprendista valletto era veramente poco impegnativa. Spesso dovevo solo tenermi alla larga dalla vista della duchessa. In quei momenti, ero solito percorrere due miglia lungo la strada per Moliva. In un certo senso, quel villaggio non aveva niente di speciale o di insolito; vi sono centinaia di posti identici in Valenwood. Ma sul vicino pendio si trovava la scuola per arcieri del maestro Hiomaste e spesso mi portavo il pranzo e seguivo le esercitazioni.

    In seguito, talvolta incontrai Prolyssa e Akin. Con Akin, molto raramente le conversazioni vertevano su argomenti diversi dal tirare con l'arco. Sebbene mi piacesse molto la sua compagnia, trovavo Prolyssa una compagnia più interessante, non solo perché era piuttosto attraente come bretone, ma anche perché mostrava di avere altri interessi oltre all'abilità nel tiro.

    "Ad Alta Roccia vi è un circo che ho visto da bambina, chiamato Circo del Calamo", disse durante una delle nostre passeggiate nei boschi. "Hanno sempre girovagato, fin da tempi immemorabili. Dovete vederlo se ne avrete l'occasione. Vi troverete giochi e attrazioni e i più strabilianti acrobati e arcieri che possiate vedere. Quello è il mio sogno, unirmi a loro un giorno, quando sarò abbastanza abile".

    "Come contate di sapere quando sarete un arciere sufficientemente valente?", le chiesi.

    Non rispose e quando mi voltai, mi accorsi che era scomparsa. Mi guardai intorno, sconcertato, finché non sentii una risata provenire dall'albero sopra di me. Era appesa a un ramo sorridente.

    "Forse non sarò in grado di unirmi a loro come arciere, ma potrei farlo come acrobata", rispose. "O forse entrambi. Ho pensato che Valenwood fosse il posto adatto per vedere cosa avrei potuto apprendere. Avete tutti quei grandi insegnanti da imitare fra questi alberi. Quegli uomini scimmia".

    Balzò in alto, puntellando la gamba sinistra prima di scattare in avanti su quella destra. In un secondo, era balzata su un ramo vicino. Trovavo difficile continuare a parlare con lei.

    "Intendete gli Imga?", balbettai. "Non siete nervosa a quell'altezza?".

    "So che è una banalità", rispose saltando su un ramo ancora più alto, "ma il segreto è non guardare mai in basso".

    "Vi dispiacerebbe scendere?".

    "Dovrò pur farlo in qualche modo", rispose. Si trovava a una buona trentina di piedi di altezza, in equilibrio su un ramo molto stretto con le braccia tese. Indicò il cancello a malapena visibile dall'altro lato della strada. "Questo albero è piuttosto vicino: non intendo avvicinarmi oltre al palazzo della vostra duchessa".

    Trattenni il fiato mentre scendeva dal ramo con una sequenza di capriole finché non arrivò a terra con le ginocchia leggermente piegate. Quello era il trucco, mi spiegò. Anticipare il colpo prima di riceverlo. Le dissi che ero sicuro che sarebbe stata una grande attrazione al Circo del Calamo. Anche se ora sapevo che non sarebbe stato così.

    Quel giorno, se ricordo bene, dovetti rientrare presto. Era una di quelle rare occasioni in cui avevo un compito da svolgere, o almeno una specie di compito. Ogni volta che la duchessa aveva ospiti, dovevo essere a palazzo. Non per qualche compito particolare, ma per mostrarmi sull'attenti nella sala da pranzo. I maggiordomi e le domestiche lavoravano sodo per portare le pietanze e togliere i coperti, ma i valletti erano meramente decorativi, una formalità.

    Ma almeno sarei stato spettatore del dramma a venire.



    La Freccia Nera
    Parte II


    di
    Gorgic Guine

    Nell'occasione dell'ultimo pranzo ufficiale, nel corso del mio periodo di servizio al palazzo, la duchessa, inaspettatamente, aveva incluso tra i suoi invitati il sindaco di Moliva e maestro Hiomaste. I pettegolezzi della servitù in merito divennero quasi maniacali. Il sindaco era già stato invitato a palazzo prima d'ora, sebbene alquanto irregolarmente, ma la presenza di Hiomaste era un evento eccezionale. Cosa mai poteva significare un gesto tanto conciliante?
    Durante lo svolgersi del pranzo le parti mantennero un atteggiamento assolutamente civile, seppure di leggera freddezza. Hiomaste e la duchessa furono entrambi alquanto pacati. Il sindaco tentò di coinvolgere il gruppo in una conversazione sul figlio appena nato dell'Imperatore Pelagius IV ed erede al trono, Uriel, ma non riuscì a suscitare l'interesse dei commensali. Lady Villea, assai più vivace, sebbene più anziana della duchessa sua sorella, orientò buona parte della conversazione sui crimini e gli scandali di Eldenroot.

    "Ho trascorso anni a tentare di convincerla ad andarsene da quella regione, allontanandosi da quella spiacevole situazione", disse la duchessa, incrociando lo sguardo del sindaco. "Recentemente abbiamo discusso sulla possibilità di farle costruire un palazzo sulle Colline di Moliva, ma c'è così poco spazio, come ben sapete. Fortunatamente abbiamo fatto un'interessante scoperta. Esiste un vasto terreno ideale per questo scopo ad appena pochi giorni verso occidente, sulla sponda del fiume".

    "Sembra perfetto", disse il sindaco sorridendo, quindi si rivolse a Lady Villea. "Quando inizierete la costruzione, vostra signoria?".

    "Il giorno stesso in cui sposterete il vostro villaggio in quel terreno", replicò la duchessa di Woda.

    Il sindaco si volse verso di lei per capire se quello fosse uno scherzo. Ovviamente la duchessa non stava affatto scherzando.

    "Pensate al volume di commercio di cui potrebbe godere il vostro villaggio se fosse costruito in prossimità della riva del fiume", disse Lady Villea, con cordialità. "Inoltre gli studenti del maestro Hiomaste potrebbero giungere più agevolmente alla sua raffinata scuola. Tutti ne trarrebbero beneficio. Sono convinta che anche mia sorella si metterebbe il cuore in pace, se non vi fossero più sconfinamenti o intrusioni nelle sue terre".

    "Vostra grazia, al momento non c'è alcuna intrusione o violazione delle vostre terre", replicò Hiomaste con disappunto. "La giungla non è un vostro possedimento, né mai lo sarà. Potreste anche convincere gli abitanti del villaggio ad andarsene, questo io non lo so. Nondimeno la mia scuola rimarrà esattamente dove si trova".

    Il pranzo proseguì in un'atmosfera ormai irreparabilmente incupita. Hiomaste e il sindaco si scusarono e i miei servigi, per quel che potevano valere, non furono richiesti nel salone dove gli ospiti si ritirarono per sorseggiare bevande e colloquiare dopo pranzo. Nemmeno una risata oltrepassò quelle mura nel corso dell'intera serata.

    Il giorno successivo, sebbene per quella sera fosse previsto un nuovo pranzo di corte, lasciai il palazzo per la mia consueta passeggiata verso Moliva. Prima di riuscire a raggiungere il ponte levatoio, fui fermato da una guardia: "Dove state andando, Gorgic? Non al villaggio, voglio sperare!".

    "Perché non dovrei?".

    Mi indicò il pennacchio di fumo che si scorgeva in lontananza: "Nelle prime ore del mattino è scoppiato un incendio e tuttora non è stato domato. A quanto pare, l'incendio ha avuto inizio nella scuola del maestro Hiomaste. Tutto fa supporre che sia opera di briganti di passaggio".

    "Sia benedetto Stendarr!", urlai. "Gli allievi sono sopravvissuti?".

    "Nessuno lo sa, ma sarebbe un vero miracolo se così fosse. Era molto tardi e al villaggio quasi tutti stavano ancora dormendo. Ho saputo che hanno già ritrovato il corpo del maestro o almeno ciò che ne è rimasto. Ed è stato rinvenuto anche il corpo di quella ragazza vostra amica, Prolyssa".

    Trascorsi il resto della giornata in uno stato di prostrazione. Mi sembrava impossibile credere a ciò che mi suggeriva l'istinto. Era mai possibile che le due anziane nobildonne, Lady Villea e la duchessa di Woda, avessero organizzato l'incursione per ridurre in cenere il villaggio e la scuola che tanto le irritava. Durante il pranzo di corte, quella stessa sera, accennarono appena all'incendio del villaggio di Moliva, come se non fosse importante. Ma per la prima volta vidi la duchessa sorridere. Quello fu un sorriso che non riuscirò mai a dimenticare fino al giorno della mia morte.

    Il mattino successivo ero deciso a recarmi al villaggio per vedere se potevo essere di qualche aiuto ai sopravvissuti. Stavo ancora attraversando le stanze della servitù, diretto verso il grande salone, quando udii le voci di un gruppo di persone poco più avanti. Le guardie e buona parte della servitù erano radunati in quel punto e stavano fissando il ritratto della duchessa appeso al centro della sala.

    Infilzata nel dipinto, proprio all'altezza del cuore della duchessa, c'era una sola freccia nera d'ebano.

    Riconobbi quella freccia immediatamente. Si trattava di una delle frecce che avevo visto nella faretra di Missun Akin. Frecce forgiate nelle viscere di Dagoth-Ur stesso, come lui diceva. La mia prima reazione fu di gran sollievo. Dunque i dunmer che erano stati così gentili da offrirmi un passaggio fino al palazzo erano sopravvissuti all'incendio. Le voci dei presenti in quella sala fecero eco ai miei pensieri successivi. Come aveva potuto quel vandalo superare le guardie, il cancello, il fossato e il portone di ferro massiccio?

    La duchessa, giunta nella stanza poco dopo di me, era chiaramente furiosa, sebbene la sua educazione le imponesse di dimostrarlo soltanto sollevando leggermente le sopracciglia. Non perse tempo e assegnò immediatamente ai servitori i nuovi compiti per mantenere i terreni del palazzo costantemente sotto sorveglianza. Ci vennero assegnati turni di guardia regolari e precisi e fummo suddivisi in piccole pattuglie.

    Il mattino successivo, a dispetto di ogni precauzione, un'altra freccia nera aveva trafitto il ritratto della duchessa.

    Quella cosa si ripeté per una settimana. La duchessa reagì esigendo la presenza costante di almeno una persona nel grande salone. Tuttavia, in qualche modo oscuro, la freccia tornava a trafiggere il ritratto ogni qualvolta lo sguardo del sorvegliante era momentaneamente distratto.

    Fu escogitata una complessa serie di segnali, in modo che ogni pattuglia potesse riferire di qualsiasi rumore o elemento di disturbo avvertito durante il turno di guardia. In un primo momento, la duchessa ordinò che il rapporto sulle eventuali anomalie riscontrate fosse consegnato al suo castellano durante il giorno e al capo delle guardie durante la notte. Ma quando si rese conto di non riuscire più a dormire, si assicurò che quelle informazioni le fossero consegnate direttamente.

    L'atmosfera nel palazzo mutò dalla cupa depressione al terrore ossessivo. Era sufficiente un serpente che strisciava nel fossato e subito sua grazia si precipitava nell'ala est del palazzo per indagare. Perfino una raffica di vento più intensa del solito che agitava le foglie di uno dei pochi alberi presenti nel prato avrebbe costituito una simile emergenza. Uno sfortunato viaggiatore solitario sulla strada davanti al palazzo, un uomo completamente innocente come infine si rivelò essere, scatenò una reazione di una tale violenza che il poveruomo deve aver pensato di esser capitato nel bel mezzo di una guerra. E in un certo modo, così era infatti.

    Nondimeno, ogni mattino un nuovo dardo era infilzato nel dipinto nel salone d'ingresso, facendosi beffe della duchessa.

    Mi fu affidato il terribile compito di sorvegliare il ritratto per poche ore nel primissimo mattino. Non desiderando essere il malcapitato che avrebbe scoperto la freccia, mi sedetti in una poltrona di fronte al ritratto, e mi imposi di non distogliere mai lo sguardo, nemmeno per un secondo. Non so se vi sia mai capitato di fissare insistentemente un oggetto. Una simile esperienza ha uno strano effetto. Tutte le altre percezioni svaniscono. Per tale motivo, quando la duchessa irruppe nella stanza, rimasi particolarmente sbigottito, avendo difficoltà a distinguere la differenza tra lei stessa e il suo ritratto.

    "Qualcosa si muove dietro agli alberi, lungo la strada proveniente dal cancello!", tuonò la duchessa spingendomi da parte e armeggiando con la sua chiave davanti alla serratura dorata.

    Si agitava nervosamente come in preda a un'ossessione, ma la chiave sembrava proprio non voler entrare. Mi avvicinai alla duchessa per aiutarla, ma si era già inginocchiata e aveva posto un occhio proprio in corrispondenza del foro della serratura, per assicurarsi che la chiave si inserisse.

    Fu in quel preciso istante che la freccia fece la sua comparsa, ma quel dardo non raggiunse mai il ritratto.

    Alcuni anni dopo, incontrai Missun Akin di persona mentre mi trovavo nelle terre di Morrowind per intrattenere alcuni nobili. Rimase sorpreso di sapere che da umile servitore di corte ero divenuto un bardo di una certa fama. Lui stesso aveva fatto ritorno nelle Terre di Cenere e, come il suo antico maestro Hiomaste, si era ritirato a una vita semplice di insegnamento e di caccia.

    Gli dissi che mi era giunta notizia che Lady Villea aveva deciso di non lasciare la città e che il villaggio di Moliva era stato ricostruito. Fu alquanto felice della notizia, ma non fui in grado di trovare il modo per chiedergli ciò che in realtà avrei voluto sapere. Mi sentivo come uno stupido chiedendomi se ciò che avevo pensato era vero, se fosse stato lui a nascondersi ogni mattina di quell'estate dietro l'albero di Prolyssa oltre la strada che proveniva dal cancello, per scoccare quella freccia nera attraverso la grat, il prato, il fossato e il foro della serratura, fino al ritratto della duchessa di Woda e fino a colpire infine la stessa duchessa. Ciò era chiaramente del tutto impossibile. Decisi di non chiedergli nulla.

    Quando ci lasciammo quel giorno, salutandoci cordialmente, mi disse: "Sono contento di vedervi così bene, caro amico. E sono felice che vi siate spostato da quella poltrona".
     
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  19. f5f9

    f5f9 si sta stirando Ex staff

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    'sta meraviglia proprio non la conoscevo!
     
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  20. alaris

    alaris Supporter

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    Vergognati...
    ;)
     
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